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Semi di pace: la parola alle donne
Concluso il soggiorno delle testimonial della XIX edizione di Semi di pace, progetto di Confronti per il dialogo tra israeliani e palestinesi
inserito da Tiziana Bartolini
Sono quattro donne, due israeliane e due palestinesi, le testimoni alle quali ha affidato il suo messaggio “Semi di Pace”, un progetto promosso dalla rivista “Confronti” con il sostegno dell’Otto per mille della Chiesa valdese – Unione delle chiese metodiste e valdesi. È un cammino che viene da lontano e che ha sempre mantenuto fede all’obiettivo di dare voce a chi in quei territori è impegnato nell’educazione alla pace e al dialogo tenendo presente la complessità del conflitto israelo-palestinese, nel contesto di un Medio Oriente in crisi. L’edizione del 2017, la diciannovesima, è stata presentata con una conferenza stampa presso la Camera dei Deputati (21 febbraio) con le testimonianze di persone “che vivono il conflitto arabo-israeliano, donne e uomini che proprio alla luce delle loro ferite non hanno rinunciato a coltivare semi di dialogo” ha detto il direttore di “Confronti”, Claudio Paravati.
L’Onorevole Khalid Chaouki, portando il suo saluto, ha parlato di una “contro-narrativa” sottolineando l’importanza di far conoscere l’esistenza di realtà positive, molto importanti “in un’Europa dove monta il pregiudizio e l’islamofobia”.
I racconti delle testimonial sedute una accanto all’altra toccano il cuore, nonostante la brevità e la traduzione che inevitabilmente attutisce l’impatto delle parole.
Ha ragione Shata Bannousa, palestinese e volontaria del Bethlem Fair Trade Artisans (BFTA): “ogni famiglia palestinese ha una storia da raccontare. Noi palestinesi siamo stati buttati fuori dalla sera alla mattina. Avevo solo 5 anni, ma ricordo tutto: la permanenza in Giordania, l’arrivo a Ramallah, le ruspe. Siamo abituati a vedere nelle città soldati israeliani armati fino ai denti ed è complicato capire la situazione, ci vorranno ancora molti anni”. Shata ha avuto delle opportunità, ha studiato a Betlemme e a Milano e oggi lavora in una organizzazione umanitaria, la BFTA, importante organizzazione che sostiene tutte le attività artigianali che putano sul riciclo. “Abbiamo dato vita a un progetto speciale che vede la collaborazione di israeliane e palestinesi. Il BFTA (www.fairtrade.org), premiato nel 2015, è l’unico soggetto che si occupa di fair trade”.
Questo progetto è realizzato anche in collaborazione con l’associazione di Orna Akad, commediografa e pubblicista che vive a Tel Aviv. Orna è ebrea, e spiega che la convivenza nella sua famiglia ‘mista’ non è facile, ma è possibile. “Mi sono avvicinata al femminismo e alle donne palestinesi - racconta -, che per il 48% sono povere. Abbiamo dato vita a un centro di consulenze per il lavoro, per aiutare queste donne che venivano trattate molto male. Abbiamo fornito loro gli strumenti minimi per difendersi: abbiamo insegnato a leggere una busta paga e capire i loro diritti, per esempio. Poi abbiamo dato vita ad una coproduzione israeliana e palestinese di prodotti, dall'olio e ceramica decidendo che le lavoratrici avrebbero ricevuto la stessa retribuzione. In questi ultimi anni ben 750 donne si sono state avvicinate e ora provvedono alle loro famiglie. Abbiamo capito che la parità delle donne è importante”.
Tamara e Najwa piangono i loro cari, ma hanno avuto la forza di reagire facendo la scelta del dialogo e aderendo al Parents’ Circle.
Tamara Rabinowitz ha perso il figlio Idor, che era sotto le armi in Libano nel 1987. “So bene che il conflitto tra Israele e Palestina comporta molta violenza e rabbia, ma ci sono persone che lavorano in modo diverso. Dopo la morte di mio figlio ho preso coscienza che dall'altra parte c'era un’altra madre che stava piangendo il suo. Ho dovuto scegliere tra la rabbia e il fare un passo verso l'altro, ho scelto di cercare il dialogo, ho sorpreso i miei concittadini. Sono convinta che si possa cambiare la percezione dell’altro e che possiamo far capire che non c’è un nemico in ogni palestinese o israeliano”.
Najwa Saadeh, palestinese, ringrazia chi è presente per condividere il suo dolore. “Mia figlia Christine è stata uccisa da un soldato israeliano a Betlemme nel 2003 e tutta la mia famiglia è stata ferita nell’attacco. Siamo entrati nel Parents’ Circle e partecipiamo alle riunioni, che si tengono nella zona C, unico luogo in cui è possibile incontrarci. Sono circa 600 le famiglie che aderiscono e che vanno a parlare per spiegare come procede il conflitto. Pensiamo che il nostro lavoro sia molto importante per far cessare il conflitto”.
Sorridono e sembrano donne ‘normali’ queste operatrici che lavorano quotidianamente per il dialogo nelle diverse realtà in Israele e nei Territori palestinesi. In realtà Tamara, Najwa, Orna e Shata sono monumenti alla ragionevolezza e alla dignità che continua ad opporsi alla follia della violenza quotidiana che appare inarrestabile.
Il loro soggiorno in Italia, giustamente definita una “preziosa semina”, ha avuto parecchie tappe fino al 25 febbraio, con incontri e conferenze in diverse scuole ed istituti del paese, da Firenze a Torino passando da Arezzo e Piombino, e poi fino a Lugano in Svizzera.
L’Onorevole Khalid Chaouki, portando il suo saluto, ha parlato di una “contro-narrativa” sottolineando l’importanza di far conoscere l’esistenza di realtà positive, molto importanti “in un’Europa dove monta il pregiudizio e l’islamofobia”.
I racconti delle testimonial sedute una accanto all’altra toccano il cuore, nonostante la brevità e la traduzione che inevitabilmente attutisce l’impatto delle parole.
Ha ragione Shata Bannousa, palestinese e volontaria del Bethlem Fair Trade Artisans (BFTA): “ogni famiglia palestinese ha una storia da raccontare. Noi palestinesi siamo stati buttati fuori dalla sera alla mattina. Avevo solo 5 anni, ma ricordo tutto: la permanenza in Giordania, l’arrivo a Ramallah, le ruspe. Siamo abituati a vedere nelle città soldati israeliani armati fino ai denti ed è complicato capire la situazione, ci vorranno ancora molti anni”. Shata ha avuto delle opportunità, ha studiato a Betlemme e a Milano e oggi lavora in una organizzazione umanitaria, la BFTA, importante organizzazione che sostiene tutte le attività artigianali che putano sul riciclo. “Abbiamo dato vita a un progetto speciale che vede la collaborazione di israeliane e palestinesi. Il BFTA (www.fairtrade.org), premiato nel 2015, è l’unico soggetto che si occupa di fair trade”.
Questo progetto è realizzato anche in collaborazione con l’associazione di Orna Akad, commediografa e pubblicista che vive a Tel Aviv. Orna è ebrea, e spiega che la convivenza nella sua famiglia ‘mista’ non è facile, ma è possibile. “Mi sono avvicinata al femminismo e alle donne palestinesi - racconta -, che per il 48% sono povere. Abbiamo dato vita a un centro di consulenze per il lavoro, per aiutare queste donne che venivano trattate molto male. Abbiamo fornito loro gli strumenti minimi per difendersi: abbiamo insegnato a leggere una busta paga e capire i loro diritti, per esempio. Poi abbiamo dato vita ad una coproduzione israeliana e palestinese di prodotti, dall'olio e ceramica decidendo che le lavoratrici avrebbero ricevuto la stessa retribuzione. In questi ultimi anni ben 750 donne si sono state avvicinate e ora provvedono alle loro famiglie. Abbiamo capito che la parità delle donne è importante”.
Tamara e Najwa piangono i loro cari, ma hanno avuto la forza di reagire facendo la scelta del dialogo e aderendo al Parents’ Circle.
Tamara Rabinowitz ha perso il figlio Idor, che era sotto le armi in Libano nel 1987. “So bene che il conflitto tra Israele e Palestina comporta molta violenza e rabbia, ma ci sono persone che lavorano in modo diverso. Dopo la morte di mio figlio ho preso coscienza che dall'altra parte c'era un’altra madre che stava piangendo il suo. Ho dovuto scegliere tra la rabbia e il fare un passo verso l'altro, ho scelto di cercare il dialogo, ho sorpreso i miei concittadini. Sono convinta che si possa cambiare la percezione dell’altro e che possiamo far capire che non c’è un nemico in ogni palestinese o israeliano”.
Najwa Saadeh, palestinese, ringrazia chi è presente per condividere il suo dolore. “Mia figlia Christine è stata uccisa da un soldato israeliano a Betlemme nel 2003 e tutta la mia famiglia è stata ferita nell’attacco. Siamo entrati nel Parents’ Circle e partecipiamo alle riunioni, che si tengono nella zona C, unico luogo in cui è possibile incontrarci. Sono circa 600 le famiglie che aderiscono e che vanno a parlare per spiegare come procede il conflitto. Pensiamo che il nostro lavoro sia molto importante per far cessare il conflitto”.
Sorridono e sembrano donne ‘normali’ queste operatrici che lavorano quotidianamente per il dialogo nelle diverse realtà in Israele e nei Territori palestinesi. In realtà Tamara, Najwa, Orna e Shata sono monumenti alla ragionevolezza e alla dignità che continua ad opporsi alla follia della violenza quotidiana che appare inarrestabile.
Il loro soggiorno in Italia, giustamente definita una “preziosa semina”, ha avuto parecchie tappe fino al 25 febbraio, con incontri e conferenze in diverse scuole ed istituti del paese, da Firenze a Torino passando da Arezzo e Piombino, e poi fino a Lugano in Svizzera.
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