NOI DONNE
MADRI SURROGATE: A PARTIRE DA ME, CON LA MENTE E COL CUORE
La
gestazione per altri e le madri surrogate: tra diritti, relazioni e rispetto è
un groviglio che ha bisogno di un approccio complesso
Di Rosanna Marcodoppido
Lunedi, 05/02/2018
Come si fa a non essere
emozionate e ragionare soltanto con la testa di un problema come questo di cui
in verità hanno già parlato in tante e tanti... Parafrasando l’espressione gestazione per altri mi è venuto da
pensare: oggi mi trovo in un seminario "per altre", cioè in uno
spazio di discussione che non dovrebbe riguardarmi, non essendo io alla mia età
né produttiva né riproduttiva. Ma sono una femminista che fa politica attiva
con l’obiettivo di cambiare radicalmente l’esistente e il suo senso; so che la
realtà, tutta la realtà prima o poi mi attraversa, diventa campo di osservazione
inevitabile, materia su cui sono obbligata a riflettere.
Credo
che il problema delle madri surrogate-utero in affitto-gestazione per altri,
groviglio così difficile da districare, abbia bisogno di un approccio complesso
e mi fa
piacere che oggi l’UDI abbia avviato un discorso multidisciplinare che, dato
questo molto importante, avviene in presenza, cioè guardandoci reciprocamente
negli occhi all’interno di una comunicazione in cui è presente il corpo e la
forza del suo linguaggio. Sono infatti tanti i piani e i soggetti che
intersecano le nuove tecniche di procreazione e, nello stesso tempo, sono
complessi e contradditori i sentimenti che esse attivano.
Sono
una che ragiona in genere a partire da sé: faccio sempre riferimento a me,
dentro di me, per tutto quello che succede e di cui si discute. Come femministe
con questa stessa modalità abbiamo negli anni passati elaborato riflessioni
sulla maternità e sul materno molto ricche e differenziate, in un quadro di
riferimento, il venire al mondo e il mettere al mondo, ri-significato alla luce
di una nuova coscienza di noi stesse, ma tuttavia rimasto a lungo abbastanza
immutato: un nuovo essere nasceva a casa o in ospedale da un corpo di donna, da
un suo ovulo fecondato durante un rapporto sessuale.
Ad
un certo punto siamo state travolte da questa formidabile accelerazione
impressa dalla ricerca scientifica e da una ricca strumentazione tecnologica
che hanno aperto imprevisti orizzonti, rendendo non facile la decodificazione
delle esperienze in termini di soggettività e di libertà. Ho cominciato anni fa ad
interrogarmi con la mente e col cuore su questi nuovi scenari poiché una
giovane donna a me molto cara ebbe un tumore che le impedì di avere un secondo
figlio da lei tanto desiderato. Ricordo che allora mi sono detta: ma se io fossi
fertile e lei mi chiedesse Rosanna,
potresti accogliere nel tuo utero un mio ovulo fecondato? certamente avrei
potuto rispondere Puoi anche adottare un
bambino o una bambina, perché è la prima risposta che viene da dare, visto
che ti guardi intorno e sai che esistono tanti minori in attesa di adozione. Ma
se lei avesse insistito Io vorrei un
figlio mio e me ne avesse spiegato le ragioni profonde, molto probabilmente
avrei detto di sì. E poi mi sono chiesta: direi di sì...e quindi avrei per nove
lunghi mesi una nuova vita dentro di me. Sono affiorati subito alla memoria i
giorni delle mie gravidanze e i miei due parti. Mi sono ricordata di tutto
quello che è successo: lo stravolgimento che c’è stato a livello di percezione
del mio essere soggetto in trasformazione continua, con il corpo che non mi
corrispondeva più, andava per i fatti suoi e si confondeva e fondeva con
emozioni nuove e la loro enorme indicibilità. Ricordo il dialogo intimo e
oscuro che ogni volta ho intrattenuto col nuovo essere, le paure, il sussulto
ai primi suoi movimenti, il sostare a lungo in ascolto dell’ignoto che mi
abitava e mi turbava. Infine, poi, i momenti del parto vissuto con le sue
ambivalenze tra separazione dolorosa, liberazione, dolore, esaltazione,
indefinibile soglia tra vita e morte. Un vissuto intenso, che ha senza dubbio
rappresentato l’avvio di un apprendimento per una concezione democratica delle
relazioni, come giustamente sostiene la storica Emma Baeri nel suo
bellissimo libro Dividua.
Sì, l’ho capito dopo, si è trattato di un
difficile esercizio di democrazia: due corpi, due entità che stavano
contemporaneamente nel mio cervello, nel mio respiro, nel mio sangue, nel cibo
che ingerivo; la consapevolezza che quell’essere in me con-fuso sarebbe
stato per sempre altro da me, insostenibile alterità a cui dovevo fare spazio,
dare ascolto, cura e libertà, al di là di tentazioni di possesso e di dominio.
Allora mi sono detta: sì, io posso anche
dire di sì, lo faccio, però nella convinzione che dopo 9 mesi quell'essere sarà
parte della mia storia come io sarò in qualche modo parte della sua, anche a
livello genetico, come sembrano dimostrare recenti ricerche. E quando, una
volta partorito, avessi dovuto “consegnarlo”, cosa avrei detto alla amica? "Io
ti do il mio? tuo? vostro?” Di sicuro mi sarei trovata in una situazione senza
senso perché non ha senso parlare di proprietà quando si tratta di un essere
umano. E allora il problema che sorgerebbe, semmai, sarebbe un altro: non di
chi è ma piuttosto chi di questo nuovo essere si prenderà cura, che vuol dire
affetto, accudimento, sostegno psicologico ed economico. E si imporrebbe
un’altra cruciale domanda: chi deve essere considerata la madre? Le mie
risposte, in questo specifico caso, sono senza tentennamenti. Sul piano
simbolico, biologico e affettivo entrambe sono madri. Sul piano giuridico,
invece, è madre solo chi se ne assumerà la piena responsabilità in tutte le
fasi della vita fino alla maggiore età.
Sto
parlando, come vedete, di una particolare tipologia di gestazione per altri che
a mio avviso non dovrebbe essere vietata poiché esito di un patto tra donne
libere e consenzienti, dentro una rete di relazioni capace di costruire, si
spera, una affettuosa, attenta, generosa genitorialità allargata.
Occorre ricordare che nella storia umana sono sempre esistite, anche se non codificate, relazioni di genitorialità e di filiazione complesse, svincolate in vario modo da maternità e paternità biologiche; mi riferisco anche a vere e proprie strutture parentali di alcune comunità ampiamente osservate da varie antropologhe e antropologi. Quello che invece è per me impossibile da accettare è un ragionamento e una pratica che tendono a ridurre la vita umana al solo dato biologico, aprendo così una netta legittimazione per la spersonalizzazione, la mercificazione e lo sfruttamento: al contrario una vita, qualsiasi vita, è la sua storia, le sue emozioni, i suoi bisogni materiali ed affettivi, le sue relazioni.
Occorre ricordare che nella storia umana sono sempre esistite, anche se non codificate, relazioni di genitorialità e di filiazione complesse, svincolate in vario modo da maternità e paternità biologiche; mi riferisco anche a vere e proprie strutture parentali di alcune comunità ampiamente osservate da varie antropologhe e antropologi. Quello che invece è per me impossibile da accettare è un ragionamento e una pratica che tendono a ridurre la vita umana al solo dato biologico, aprendo così una netta legittimazione per la spersonalizzazione, la mercificazione e lo sfruttamento: al contrario una vita, qualsiasi vita, è la sua storia, le sue emozioni, i suoi bisogni materiali ed affettivi, le sue relazioni.
Resta
però il problema di dover comunque fare i conti con gli scenari che le
biotecnologie aprono e le nuove sfide che pongono sul piano etico, giuridico,
sociale,
perfino nella stessa definizione di cosa è mercificazione e cosa è sfruttamento
in un tempo – non ce lo dimentichiamo- in cui sembra che il possibile possa
sempre coincidere con il lecito e il desiderio con il rifiuto del limite.
Una
regolamentazione è necessaria, ma quale? e come arrivarci? Dobbiamo secondo me utilizzare
gli strumenti che le elaborazioni e le pratiche femministe ci consegnano, con
l’attenzione alle tante differenze che ci attraversano e ragionare da soggetti
situati nell'oggi; occorre allargare lo sguardo all’intero e complesso scenario
della riproduzione umana, facendo spazio a tutti i soggetti coinvolti e, se è
il caso, sospendere temporaneamente il giudizio, mantenendo però sempre al
centro la qualità e il valore delle relazioni. Bisogna infatti capire prima
di giudicare e per farlo occorre ascoltare. Per quelle della mia generazione è
fondamentale l’ascolto delle giovani donne che oggi si trovano in età fertile a
vivere questo complicato e contradditorio presente, cercare di capire il senso
che danno alla propria esperienza e come, di fronte a tante inedite
opportunità, intendono declinare l’autodeterminazione e la libertà femminile.
Si è
parlato prima del movimento Non Una Di
Meno in termini che non condivido.
Sono
da quasi 4 anni nella rete Io decido
nata per volontà e passione politica di ragazze che frequentano i centri
sociali e che hanno costituito gruppi femministi all'interno di questi luoghi. Non
le conoscevo, sono intervenuta alla loro prima assemblea quando tutte queste
piccole realtà hanno deciso di fare rete. Sono rimasta con loro convinta come
sono che la frammentazione è un dato di debolezza per tutte noi e che ineludibile
è il confronto intergenerazionale.
A
giugno dell’anno scorso Io decido ha
scelto di darsi un obiettivo più ambizioso e, insieme all’UDI e a DIRE, ha dato
vita al movimento Non Una Di Meno,
presente ormai in tutta Italia. Io continuo a partecipare attivamente alle
numerose riunioni che spesso durano fino a tardi durante le quali mi capita di
portare, col mio contributo, la testimonianza e i saperi di una storia per loro
in parte sconosciuta, visto che il percorso scolastico e le varie agenzie educativo/formative
sono ancora pesantemente segnate dalla misoginia di una cultura maschile e
maschilista. Nonostante i miei 43 anni di lavoro politico nell’UDI, l’incontro
fecondo col femminismo e l’esperienza esaltante dei dieci anni di occupazione
dell’ex Buon Pastore oggi Casa Internazionale delle Donne, stando con loro mi
si è allargato ancora una volta l’orizzonte.
Non è facile alla mia età stare al passo con una vitalità che non conosce soste e inoltre tende a vivere la politica in termini contrappositivi a prescindere dalla complessità del reale, ma, vi assicuro, lo scambio con loro è per me molto emozionante e stimolante. Mi trovo di fronte a giovani donne che stanno facendo i conti con la precarietà, lavorativa ed esistenziale, con le resistenze di un patriarcato ancora furioso e di un neoliberismo selvaggio, con le cose terribili di cui stavate parlando a proposito di biotecnologie e biopolitica, con il nuovo mercato del lavoro e le sue insensatezze e disumanità. Nelle loro analisi, attraverso una pratica politica orizzontale, prezioso laboratorio di democrazia, cercano di destrutturare e combattere i dispositivi di costruzione sociale dei due generi, gli stereotipi sessisti e la violenza che essi determinano e, nello stesso tempo, lottano contro qualsiasi forma di sfruttamento, ingiustizia, esclusione.
Non è facile alla mia età stare al passo con una vitalità che non conosce soste e inoltre tende a vivere la politica in termini contrappositivi a prescindere dalla complessità del reale, ma, vi assicuro, lo scambio con loro è per me molto emozionante e stimolante. Mi trovo di fronte a giovani donne che stanno facendo i conti con la precarietà, lavorativa ed esistenziale, con le resistenze di un patriarcato ancora furioso e di un neoliberismo selvaggio, con le cose terribili di cui stavate parlando a proposito di biotecnologie e biopolitica, con il nuovo mercato del lavoro e le sue insensatezze e disumanità. Nelle loro analisi, attraverso una pratica politica orizzontale, prezioso laboratorio di democrazia, cercano di destrutturare e combattere i dispositivi di costruzione sociale dei due generi, gli stereotipi sessisti e la violenza che essi determinano e, nello stesso tempo, lottano contro qualsiasi forma di sfruttamento, ingiustizia, esclusione.
Attraverso
un separatismo aperto alle tante differenze si stanno liberando dell’impianto
binario e gerarchico del pensiero patriarcale e stanno faticosamente e
generosamente tentando di tenere tutto insieme: genere, classe, orientamento
sessuale, differenze culturali e religiose. Tutto in una ottica
intersezionale e internazionale, in connessione con la realtà LGTB e col
femminismo postcoloniale e postcomunista. In questo senso rappresentano un
nuovo movimento femminista, un femminismo
che io definisco “delle differenze”.
Certamente
esistono fragilità teoriche e alcune confusioni e rischi, ma sono rimaste quasi
le sole, utilizzando al meglio le nuove tecnologie comunicative, ad occupare di
continuo lo spazio pubblico –piazze, sedi di giornali, ospedali, tribunali….-
in modo creativo ed efficace, coinvolgendo una pluralità di soggetti. Non hanno
ancora affrontato il problema della maternità surrogata, ma quando lo faranno
sono sicura che rifletteranno ciascuna a partire da sé, mettendo in pratica
quello che dicono di aver imparato dal femminismo. Saranno di certo
interlocutrici importanti per un confronto tra donne e tra i generi
capace di produrre un nuovo simbolico condiviso, in grado di illuminare
e orientare questo nostro difficile presente.
*Intervento al seminario nazionale dell’ Unione Donne in Italia del 18 Marzo 2017 “A proposito di surrogata”. Testo rielaborato sulla base della registrazione audio dell’Udi.
Ho
mandato un commento alla rivista, ma è subito sparito. Supplisco con quest’altro:
Manca l’interlocutore più importante:
il bambino
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