B. Salvarani Il Vangelo secondo Leonard
Cohen
La
musica pop, non è una novità, ha visto una gran quantità di autori cimentarsi
con il tema del rapporto con la religione: campo alquanto difficile e
insidioso, dove le trappole della banalità e del cattivo gusto sono sempre in
agguato e non è sempre detto che l’immediatezza della comunicazione – qualità
importante per una canzone – riesca a coniugarsi con la complessità
dell’argomento.
- Ci sono alcuni artisti, però, che hanno saputo scavalcare brillantemente gli ostacoli trattando con un mezzo apparentemente facile e popolare come la canzone le tematiche proposte dai testi sacri; ce ne sono altri, in misura minore, che ne hanno felicemente fatto un fondamento della loro poetica in musica, arrivando al cuore del proprio pubblico. Tra questi c’é sicuramente Leonard Cohen, scomparso in questi giorni a ottantadue anni, a mio avviso il più significativo per esiti artistici e popolarità planetaria sotto questo profilo, la cui autodefinizione presente in The future (1992) – “Io sono il piccolo ebreo che ha scritto la Bibbia” – non è per niente esagerata o fuori posto. Si badi: i suoi testi sono generati dalla Bibbia, più che ispirati a essa, ma il testo sacro alla tradizione ebraica e cristiana non è scelto in conseguenza di una presa di posizione fideistica. La Scrittura è una presenza immanente alla poetica coheniana, esattamente come il Grande Codice è la pagina sorgiva dell’intera cultura occidentale.
“Mi
piace la compagnia dei monaci e delle suore e dei credenti ed estremisti di
ogni genere – ha detto lui una volta – e mi sono sempre sentito a casa tra le
persone di quella fascia. Io non so esattamente perché, so che rende solo le
cose più interessanti…”. Ne Il vangelo secondo Leonard Cohen (Claudiana 2010),
da parte nostra, mia e del compagno di scorribande musicalteologiche Odo
Semellini, abbiamo cercato di analizzare la dimensione del sacro nell’opera
dell’allora settantasettenne artista canadese, prendendone in esame, oltre al
canzoniere, anche le raccolte di poesie, i romanzi e le interviste rilasciate
nel corso degli anni. Siamo infatti convinti che il poeta di Montréal ha saputo
fare del suo percorso spirituale e religioso un argomento degno di essere
cantato, raccontato senza mai scadere nell’autocelebrazione, sapendolo arricchire
anche della complessità del rapporto non solo tra l’uomo e Dio, ma anche tra
l’uomo e la donna, cogliendo perfettamente le contraddizioni di tale rapporto,
che scandisce quotidianamente l’esistenza di ognuno di noi. Al tempo stesso,
come scrive Alberto Corsani su Riforma del 21 maggio 2010, i riferimenti
biblici nelle canzoni di Cohen “fanno parte dell’humus in cui il cantautore è
cresciuto, costituiscono il suo retroterra, senza esaurirlo e senza impedire
che le sue canzoni vengano interpretate a prescindere dalla fede… Cohen ci
porta alla soglia di un paesaggio sconfinato, che forse avremo il privilegio di
scoprire; ben sapendo che perfino a Mosè fu negato di vedere compiutamente la
Terra promessa”. Di questa peculiarità si era ben accorto il nostro Fabrizio De
André, che non a caso tradurrà quattro brani di Cohen (tra cui la famosa
Suzanne), e cui abbiamo dedicato un capitolo, in cui sono messe a confronto le
tematiche etiche e religiose del cantautore genovese e del collega
d’oltreoceano. Nel libro abbiamo voluto inserire un altro faccia a faccia
illustre tra Cohen e Bob Dylan, per certi versi il suo corrispettivo
statunitense. Ma anche la sua vicenda buddhista: nel 1993, dopo la promozione
mondiale del suo album The future, egli decideva di ritirarsi al Mount Baldy
Center, un monastero zen sorto nel 1971 e situato a duemila metri di altezza, e
di sostarvi per oltre sei anni con il nome di Jikan, il silenzioso. Pur
conservando il suo essere ebreo di fondo, si badi, quella che chiama la
religione di famiglia… Il Nostro non è stato certo un autore prolifico – appena
quattordici album in studio in un quarantennio di carriera, compreso l’appena
uscito You want it darker – ma ha saputo suscitare l’ammirazione di diversi
suoi colleghi (Bono degli U2 e Jeff Buckley, tanto per fare solo un paio di
esempi notevoli) che lo hanno omaggiato con un numero pressoché sterminato di
cover. Su tutte, la celeberrima Hallelujah, titolo che allude alla preghiera di
lode a Dio nella liturgia ebraica, che ha fatto scorrere i proverbiali fiumi
d’inchiostro e registrato una serie pressoché infinita di reinterpretazioni.
Cohen è riuscito a raccontare come pochi il suo tempo cercando, come ha
sottolineato Gianfranco Ravasi su Il Sole 24 ore del 1° settembre 2010, “di
intrecciare nel suo pensare, scrivere e cantare, spirito e corpo, mito e
storia, mistica e amore, sacro e profano, ma soprattutto Dio e uomo, avendo
sempre accesa nel suo cielo la stella della Bibbia”. E, aggiungo, raccontando
le inquietudini umane alla luce di una fede che, proprio perché finita e
imperfetta, ha saputo affascinare generazioni di fedeli ascoltatori. Perché le
domande sull’esistenza sono le stesse per tutti, e le risposte che ha provato a
dare quello che mi piace definire il canadese errante, così pregne di armonia e
bellezza, possono servire, anche solo in parte, a noi tutti. Perché, come dice
lui, “ogni canzone che ti consente di dare via te stesso è una buona
preghiera”.
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