Sottopongo a chi legge questo contributo della Campari perché
tutti, uomini e donne, possiamo riflettere. Le parti che hanno i caratteri
più grandi costituiscono l’enucleazione dei temi fondamentali.
Da parte mia voglio esprimere soltanto una nota:
noi donne di una certa cultura ‘femminista’, alla pari con
non-pochi uomini di ‘cervello fino’, sappiamo fare delle belle analisi. Ho presente,
questo momento, il modo di esprimersi di Cuperlo ieri sera intervistato da
Fazio: tutto perfetto il sogno che progetta per il Pd. Ma: non si cambia una
mentalità, come non si guida un partito, con i piani lungimiranti. E mi metto
nei panni della gente comune (oh la gente comune!...).
Io stessa, ad
esempio, molto spesso, dopo avere spaziato nei miei approfondimenti
(soprattutto sul vangelo), torno al quotidiano e parlo con chi vuole comunicare
con me: è come trasferirmi dall’alto dei cieli agli abissi del dolore bruciante
dei bisogni fondamentali. E provo sconcerto: il diaframma non potrebbe essere
più lacerante.
Ma allora che fare se non ridurre la portata di questo
diaframma?
Anche io ho le mie più banali necessità, tanto da cercare di
trasferirmi un po’ (date le mie condizioni di relegata su un letto) dentro un
orizzonte –come dire?- meno serioso. La televisione, ma in parte anche la radio
‘… culturale’ mi ripugna con le sue insistenze ideologiche. L’alternativa che
mi resta è: il mondo della fede o il riposo della mente; ebbene di quest’ultimo
avrei bisogno più del pane evangelico. Ma la scelta non è facile perché per fare
il vuoto della mente ci vuole lo svago; e chi me lo fornisce se non qualche canale
meno ideologizzato, senza fare la schifiltosa?
Questo per dire che questo contributo, sintomatico, va
ridimensionato alla luce della CONCRETEZZA del vivere-oggi: senza rimpianti per
un passato migliore(?) e senza motivi di accusa per il presente (anche per chi
si abbarbica alle TV berlusconiane ed al clima da esse prodotto). Panem et circenses: ecco cosa proponeva
il mondo romano (e non solo).
L’ATTACCO ALLA COSTITUZIONE AVVIATO
CON LA “DEROGA” ALL’ART. 138
NON È UN FULMINE A CIEL SERENO
LA COSTITUZIONE E NOI di Maria Grazia Campari 18|09|13
Penso che le femministe
debbano assumersi la responsabilità di partecipare, di rimettere in moto un
processo democratico allargato praticando conflittualità contro l’assetto
presente, decostruendo il diritto nominale di partecipazione in favore di una
effettività capace di indurre nelle regole dell’ordinamento il segno di valore
di ogni differente essere umano.
L’attacco alla Costituzione
avviato con la “deroga”all’art. 138 (sull’iter di modifica delle sue norme),
non è un fulmine a ciel sereno.
Non occorre essere giuriste
esperte di diritto costituzionale, per interrogarsi, e in alcune lo facciamo da
tempo, su come difenderci dalla manomissione surrettizia dei valori cardine
della nostra Costituzione.
Nel difenderla, consideriamo
di difendere noi stesse. Ci è sembrato e ci sembra un modo di operare per il
consolidamento di spazi di libertà e di opportunità acquisiti, da arricchire e
ampliare attraverso un’azione politica mirata.
A cominciare dall’art.1
della Costituzione che proclama che il nostro ordinamento è
democratico e fondato sul lavoro, quindi valorizza la partecipazione in regime
di eguaglianza e conferisce dignità al soggetto che lavora e non tollera
mercificazioni di sé nel mercato.
E’ chiaro che l’espressione
negli intenti dei costituenti era ben lungi dal ricomprendere le donne al
lavoro (come chiaramente si deduce dall’art.
37 della stessa Costituzione), ma altrettanto è chiaro, secondo molte di
noi, che la tenuta di una legge quadro che fa del soggetto libero ed eguale il
suo pilastro, avrebbe finito col ricomprenderci autorizzando un conflitto
politico finalizzato.
Abbiamo dovuto constatare che
negli ultimi anni questi valori sono smentiti dal modello sociale che pratica la supremazia dei mercati, che concentra la
ricchezza nelle mani di una percentuale sempre più ristretta di persone ai
danni della stragrande maggioranza degli altri, ridotti in povertà, che trasforma
il lavoro in precariato, che riduce i diritti sociali e le opportunità
culturali, che blocca l’ascensore sociale riservando i piani alti a ristrette
oligarchie che dominano la scena politica italiana, europea, mondiale.
Queste ineguaglianze sociali
senza apparente via di uscita, da anni mettono a rischio la democrazia
partecipata in favore di una cittadinanza censitaria ove i diritti
non sono universalmente garantiti, ma distribuiti in modo difforme che dipende
dalle risorse disponibili da ognuno per acquisirli.
La logica mercantile che viene
presentata come legge ineluttabile erode in modo silenzioso i pilastri della
“società giusta che la Costituzione ci indica” (cito dal manifesto “La via maestra”).
Con
l’attuale governo di larghe intese, scelto impropriamente dal Presidente della
Repubblica impropriamente rieletto e non dai cittadini attraverso
rappresentanti liberamente eletti, l’attacco si è fatto diretto e si manifesta
attraverso la volontà esplicita di modificare gran parte della Costituzione,
ciò che rende necessaria un’azione di popolo per porvi freno.
Secondo me, ci si presenta
l’occasione (da cogliere) per rovesciare anche il riformismo neoliberale a
conduzione bipartisan che ci affligge da anni e mi auguro che la partecipazione
del sindacato (FIOM, SPI CGIL, salvo altri) abbia il senso di imboccare
finalmente con decisione questa strada.
Cito sempre dal manifesto
“ La via maestra ”: “La difesa della Costituzione è
innanzitutto la promozione di un’idea di società divergente da quella di coloro
che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e ora operano per
manometterla formalmente”.
Dal mio punto di vista,
difenderla significa portare i valori affermati ad ulteriori effetti attraverso
un’opera di parziale modificazione di senso che la adeguino senza aporie ai
principi fondamentali in essa contenuti. In primo luogo bisogna contrastare il
consolidamento del potere nelle mani di una oligarchia ristretta e curare la
compiutezza e l’estensione dei diritti di cittadinanza.
Mi soffermo su questo aspetto
che è quello maggiormente attinente al progetto di controriforma
costituzionale.
Non è da oggi che la
democrazia italiana si manifesta come a-partecipata, corrosa alle fondamenta da
forme oligarchiche di rappresentanza, pur mantenendo formalmente il medesimo
assetto costituzionale.
Non è quindi per caso
che le critiche ricorrenti sia a destra che a sinistra esitino ora nel
tentativo aperto di scardinarne l’assetto in favore di una governabilità che
mira alla concentrazione dei poteri nell’esecutivo e allo svilimento ulteriore
del ruolo del Parlamento, già attualmente “carente di legalità costituzionale”
(espressione di G. Zagrebelsky) a causa della legge elettorale.
Secondo me la situazione
attuale mostra gli esiti di un peccato originale: la esclusione di fatto di una
gran parte della cittadinanza dalla gestione della cosa pubblica.
Mi riferisco alla quasi
totale assenza femminile dallo spazio pubblico, dall’esercizio compiuto ed
effettivo del diritto di cittadinanza. Un’assenza che, secondo me, determina
debolezza politica e sociale.
La cittadinanza giuridica
formale è assicurata alle donne, ma la carenza di cittadinanza politica (la
evidente povertà di presenza nelle istituzioni rappresentative) mette
continuamente a repentaglio autodeterminazione e persino diritti della
personalità della metà del genere umano.
Questo è il risultato di una
condizione di esclusione cui concorrono pratiche istituzionali, definizioni
giuridiche, interessi economici. Un dato da non sottovalutare è, infatti, il
vantaggio maschile.
Non pare opportuno tenere il
discorso su un piano di disinteressata superiorità, poiché tale atteggiamento è
spesso foriero di miseria materiale e anche simbolica.
Occorre prendere in attenta
considerazione il piano materiale. Su questo piano, è palese il guadagno che
dalla debolezza politica e sociale femminile consegue agli uomini, anche ai
meno dotati: servizi alla persona, cura delle relazioni, eliminazione di
concorrenza per posti di potere e di danaro. Con questo esito evidente: il
sistema così strutturato tende incessantemente a ridurre la donna a una
condizione pre-giuridica dove è fatalmente dominata dalla legge creata
dall’altro, priva della reale possibilità di modificare le regole del vivere
associato.
Sembra,
allora, necessario partire dalla tradizionale esclusione femminile dal governo
della cosa pubblica per incardinare un conflitto per la partecipazione che è
l’unico modo di garantire universalità ai diritti per tutti. Colmare
lacune di effettività nella cittadinanza passando dalla cittadinanza giuridica
a quella politica, non vuol dire, secondo me, impegnare le donne nel fornire
ossigeno a una democrazia ormai comatosa, ma dare corso a pratica e pensiero
differenti, capaci di modificarne radicalmente l’orizzonte.
Divenire parte significativa
del soggetto costituente della democrazia significa, in prima istanza,
contrastare esclusione e violenza contro le donne, segregate in ruoli tradizionali
di erogatrici di servizi. (Vi è una violenza implicita nella esclusione
delle donne dallo spazio pubblico e dal potere di prendere le decisioni che
contano, un implicito giudizio svalorizzante che considero condizione
predisponente di ogni violenza manifesta, una sottrazione di democrazia
partecipata, quindi una sottrazione di democrazia per la metà del genere umano,
quindi per il genere umano complessivamente inteso).
E’ ora più che mai necessario
contrastare l’appropriazione del potere decisionale da parte di pochi scelti
per cooptazione, che costituisce appropriazione privata della democrazia. Ciò
significa allargare il corpo politico come condizione per l’ampliamento di
relazioni, di scambi discorsivi che modificano la cittadinanza, la rendono plurima,
condivisa fra differenti.
Ancora oggi, nel corpo
sovrano autonormante (cioè fra i titolari dei diritti di
cittadinanza) non tutti sono membri a pieno titolo.
Vi sono alcuni che, pur
residenti nel territorio, non godono a pieno titolo dei diritti di appartenenza
al corpo politico e al progetto di cittadinanza:
Le donne e tutti coloro che a
causa di un significativo criterio identitario, non rispondono ai requisiti in
base ai quali il popolo riconosce se stesso: provengono da altri territori,
appartengono ad altre etnie. Anch’essi non partecipano alla elaborazione delle
regole che presiedono alla convivenza: sono soggetti eteronormati, estraniati
dalla ricerca del bene comune, deresponsabilizzati.
Occorre, allora, individuare misure capaci di favorire l’accesso allargato allo
spazio pubblico, dare a ciascun soggetto libertà e responsabilità nel mondo, là
dove ognuno diviene visibile e udibile (H. Arendt Il diritto di avere diritti).
Il compito prioritario della
democrazia partecipata, potrebbe essere quello di mettere in comunicazione
esperienze diversificate per fondare una cittadinanza
plurisoggettiva e cosmopolita, destinata a creare un apparato di regole
universali che possano filtrare le differenze senza opprimerle nell’unicità,
favorendo il gioco e lo scambio per la modificazione reciproca
Un sistema politico
democratico dovrebbe curare che le persone non partecipino solo come votanti,
ma come agenti delle proprie esperienze, ragioni e desideri, come responsabili
di decisioni collettive condivise.
La democratizzazione delle
istituzioni richiede procedure di allargamento delle sedi di discussione e dei
livelli decisionali circa i mezzi e i fini che la società si propone, suppone
la riorganizzazione delle regole che riguardano il processo decisionale per
estenderle a tutti, sia in termini di produzione che in termini di (convinta)
osservanza.
Ognuno vede che oggi non è
così.
La situazione attuale si
segnala, anche (o soprattutto) in conseguenza del peccato originale di cui
abbiamo detto, per una esclusione sempre più ampia dai diritti di cittadinanza:
il piano inclinato della
negazione coinvolge, dopo le donne e lo straniero, tutti quanti. Prova ne è la
legge elettorale giustamente definita “porcellum”
che nega a tutti i cittadini
il diritto costituzionale di scegliere liberamente i propri rappresentanti in
Parlamento. Che è anticostituzionale e dovrebbe da gran tempo essere
modificata, ma, pur figurando in vari programmi elettorali e di governo, resta
inesorabilmente collocata nelle retrovie delle azioni “riformatrici”.
Il principio discende
dall’art. 1 c. 2 della Costituzione (“la sovranità appartiene al popolo”) che
lo precisa all’art. 48 (“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto…..Il
diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile…” ).
Inoltre deputati e senatori
sono eletti per suffragio universale e diretto (art.
56 e 58
Costituzione).
Il principio costituzionale di
rappresentanza diretta significa che l’esercizio del diritto di voto non può
essere delegato né ceduto ad altri.
Il sistema introdotto dall’attuale
legge elettorale ha sottratto ai cittadini la possibilità di esprimere la
propria preferenza per un candidato: la lista bloccata e l’ordine di
elencazione rimette la scelta e la possibilità di conseguire la carica, di
fatto, alle segreterie dei Partiti. Con conseguenze gravissime:
la sudditanza dei nominati/eletti verso i selezionatori ha sostituito
la responsabilità politica verso i cittadini, con esiti purtroppo devastanti,
come è ben noto. La rappresentanza è sostituita dalla rappresentazione
della politica spettacolo: una “classe dirigente” più abituata ai talk show
televisivi che ai conflitti parlamentari, più all’uso del pulsante che alla
elaborazione legislativa, più alla fiducia acritica che al confronto di idee.
Lo spazio
pubblico è occupato da una classe politica maschile in via esclusiva,
un’esclusiva che mortifica competenza, intelligenza delle relazioni,
differenza, critica dell’esistente, ciò che nega il merito e ci conduce al
peggio.
La polis a sesso
unico ha avuto come esito prevedibile l’occupazione delle istituzioni (non
più rappresentative) ad opera di apparati a leader unico, quindi la gestione a
uno o a pochi delle esistenze di milioni di individui, soggetti a decisioni
altrui, prese senza la loro, ormai superflua, partecipazione.
Ci troviamo in un autentico ginepraio - dal quale non sarà facile trovare vie
di uscita – una situazione che non è stata promossa dalle donne, ma si è
realizzata anche grazie a indubbie complicità femminili.
In questa situazione, non
deve essere consentito a costoro di modificare l’ordinamento giuridico che ci
ricomprende tutti.
A mio parere, un passo
significativo va compiuto verso la democrazia partecipata dei due sessi, una
democrazia che attui la pretesa di auto rappresentanza di tutti i soggetti, che elimini
la marginalità delle donne nella sfera pubblica e le renda co-produttrici
delle regole che governano il vivere associato.
Oggi più che mai è necessario coltivare il patriottismo costituzionale che
significa battersi per l’effettività dei suoi principi che prevedono la
possibilità concreta di sviluppo delle capacità umane di tutti i soggetti, di
qualunque sesso o razza, avendo come modello l’idea di una vita degna. Farò
alcuni esempi che mi sembrano interessanti per la modifica/attuazione progressiva
della Costituzione.
La regolamentazione
dell’istituto famigliare degli articoli 29 e 31 della
Costituzione richiederebbe una profonda ristrutturazione poiché le
previsioni ivi contenute sono fortemente imitatrici della autodeterminazione
femminile, quindi incompatibili con i valori dei primi tre articoli della
Carta.
Il concetto di famiglia che
manifestano interferisce pesantemente in termini negativi con la concezione di
partecipazione attiva femminile alla cittadinanza.
La previsione esplicita è che
l’eguaglianza morale e giuridica fra i soggetti possa essere limitata in favore
dell’unità famigliare. Espressione che allude alla priorità decisionale
conferita al marito, che esita nell’unicità del soggetto titolato ad essere in
comunicazione con la sfera politico sociale.
La responsabilità dell’uomo
nella sfera pubblica riguarda, quindi, secondo queste regole, lui stesso
come cittadino in prima persona e, in più, sempre lui come rappresentante
della sua cellula famigliare.
Ciò toglie soggettività ai
membri di questa istituzione e in particolare alla donna, per tutto il tempo
dell’appartenenza.
L’ideologia della famiglia
conferisce alla cittadinanza tratteggiata nella Costituzione una dimensione
sessuata maschile che sarebbe improprio mettere in ombra.
Qui appare in trasparenza la costituzione materiale di stampo
patriarcale che nega l’eguaglianza proclamata come universale nei precedenti
art. 2 e 3 della
stessa Carta.
La natura di patto prevalentemente
improntato a una socialità esclusivamente maschile
Si evidenzia anche nel sistema
degli artt. 36 e 37 della
Costituzione, che rispondono alla stessa logica familistica e certificano
lo scandalo, tuttora esistente, della divisione sessista del lavoro di
cura e per il mercato, cui consegue la ineguaglianza fra i generi sul piano della
giustizia sociale. Anche questi articoli necessitano di revisione che
attui i valori fondamentali.
Inoltre, l’art.
13 della Costituzione, alla luce dell’esperienza storica, dovrebbe
contenere l’affermazione esplicita che la libertà personale va intesa come
inviolabilità del corpo e dell’autodeterminazione riproduttiva femminile,
contro ogni tentativo di attribuzione di personalità o capacità giuridica
all’embrione fin dal concepimento. (L. 40/2003). Ciò che
mi pare strettamente connesso alla radicale ristrutturazione dell’art.
29, già menzionato.
Anche l’art.
32 che tutela la salute come bene primario del singolo e interesse
fondamentale della collettività, dovrebbe esplicitare una funzione da baluardo per
la libera autodeterminazione riproduttiva.
L’art.
35 dovrebbe contenere la previsione di tutela per il lavoro
produttivo e per quello di riproduzione sociale in tutte le sue forme.
L’art.
36 dovrebbe tralasciare qualsiasi riferimento al sostentamento
della famiglia e prendere piuttosto in considerazione, le persone
economicamente dipendenti dalla lavoratrice o dal lavoratore.
L’art.
37 dovrebbe tralasciare ogni riferimento alla funzione famigliare
della donna lavoratrice e menzionare, invece, misure di effettività per la
partecipazione al lavoro dei due soggetti sessuati.
La Costituzione del 1948
domanda interventi di attuazione e miglioramento progressista in termini di
allargamento della partecipazione alla res publica. Il contrario del
restringimento nel governo oligarchico che si tenta di approntare.
Il compito di contrastare la
deriva autoritaria e anticostituzionale in atto spetta, secondo me, a tutte le
forze progressiste e ai movimenti, in particolare, a quello femminista.
Penso che le femministe debbano assumersi la responsabilità
di partecipare, di rimettere in moto un processo democratico allargato praticando conflittualità contro l’assetto
presente, decostruendo il diritto nominale di partecipazione in favore di una
effettività capace di indurre nelle regole dell’ordinamento il segno di valore
di ogni differente essere umano.
Concludendo, è necessario agire
conflitti fra loro coordinati capaci di scuotere la cornice obbligante
nella quale ci troviamo, contrastarla collettivamente ponendo riparo al danno
sociale che consegue alla dispersione nell’individualismo, dare risposte
adeguate anche e prioritariamente ai gravi problemi di ingiustizia sociale che
stanno affossando ogni parvenza di democrazia partecipata e inclusiva.
18|09|13
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