lunedì 7 ottobre 2013

Intervista a Renzi

Trovo interessante questa intervista.
Spero vi faccia piacere leggerla.
In rosso le frasi che mi hanno maggiormente colpito
 in senso positivo
La Stampa 7 ottobre 2013
Intervista a Matteo Renzi
MASSIMO GRAMELLINI inviato a Firenze
Ero andato a Firenze per capire se si può comprare un’auto usata da Matteo Renzi e ho scoperto che va in bici. Ci sta seduto sopra, nel cortile di Palazzo Vecchio. «Pedala, altrimenti cadi», gli grida qualcuno, facendo il verso alla sua famosa battuta su Letta. Il ciclista abbassa il cavalletto e scende. È una pila atomica. Attraversa piazza della Signoria, stringe mani di turisti, saluta in inglese gli americani, accenna un inchino ai giapponesi, raccoglie cartacce dal selciato e le va a buttare nel cassonetto. A tavola rinuncia al vino e solleva la camicia per mostrare un preludio di pancetta. “81 chili. Da qui ai quarant’anni voglio scendere a 75. Mi sono dato un anno e mezzo di tempo”. Forse non solo per dimagrire (Gramellini).  

A scuola lei era già così sicuro di sé?  
«Al classico venni rimandato in scienze per una ripicca personale con la prof. Mi comportai con arroganza, lo ammetto. Ma mi è servito». 
Per diventare arbitro di calcio?  
«Potrei dirle che avevo un innato senso della giustizia… In realtà non ero abbastanza bravo per giocare. A 17 anni arbitravo in seconda categoria. Certi derby in provincia di Pisa…». 
I conterranei di Letta la menavano?  
«Mai. Solo insulti alla triade classica: mamma, nonna, fidanzata». 
Cosa ha imparato dall’arbitraggio?  
«A decidere senza rinviare». 
Allude?  
«Bisogna saper gestire i cartellini. La prima ammonizione è fondamentale. Va data intorno al ventesimo minuto per far capire ai giocatori che ci sei. Da sindaco la pedonalizzazione l’ho fatta subito, quando tutti dicevano di aspettare. Arbitrare mi ha insegnato a non dare la colpa agli altri. Qui c’è gente che prende il raffreddore e dice che è colpa dell’instabilità». 
Allude ancora, signor arbitro. Poi capo-scout.  
«Lì ho imparato che clan può essere una bella parola. Soffro quando leggo che avrei abbandonato qualcuno dei miei. Io sono uno che osa, non uno che usa». 
Come mai a vent’anni partecipò alla Ruota della Fortuna?  
«Adoro i giochi di parole». 
Si era capito. E io che credevo volesse conoscere Paola Barale.  
«Aveva un suo spessore culturale. Vedendola dal vivo ho scoperto che la tv ti ingrassa di parecchio. Ho vinto 4 partite. Alla quinta avrei guadagnato 50 milioni di lire e sarei andato alla Ruota d’Oro. Invece sbagliai l’ultima definizione: un mare di neve. Dissi: un mare di navi. Mi ha fregato una vocale». 
Arriva sempre a un passo dalla vittoria e poi...  
«Fu la mia fortuna. Era il febbraio 1994. La puntata dopo Mike fece il famoso appello elettorale a favore di Berlusconi. Fossi stato lì, oggi qualcuno direbbe: perché Renzi non intervenne?». 
Siamo al 25 luglio del Cavaliere?  
«Sì, siamo all’epilogo. Lungo, ineludibile. Berlusconi mi fa rabbia perché ha cambiato il calcio, la tv e l’edilizia, ma non la politica: non solo non ha fatto le cose che volevamo noi, ma nemmeno quelle che voleva lui».  
Lo hanno messo in minoranza nel suo stesso partito.  
«Umanamente non sopporto i lecchini che all’improvviso sono diventati coraggiosi. Quelli che votavano Ruby nipote di Mubarak e adesso dicono che Berlusconi non ha i requisiti morali. Perché scusa, negli ultimi venti anni dove stavi? Che tristezza questi maramaldi ruffiani e pavidi». 
Anche Alfano fa parte della categoria?  
«No, Alfano si è trovato a dover scegliere tra la fedeltà all’uomo cui deve tutto e quella a un Paese per il quale ha giurato. Mi fanno più pensare i Giovanardi. Vuole fondare un nuovo partito e poi si stupisce se i giovani si drogano. È una battuta di Crozza. Strepitosa: l’avrà copiata da Twitter…». 
Non teme che il governo “Alfetta” ci riporterà la Dc?  
«Letta è un bipolarista convinto. Anche Alfano. Il Grande Centro è il sogno dei Fioroni e dei Giovanardi. Non passerà. Per la legge elettorale ripartiremo dalla bozza Violante. Chiunque vinca il congresso, il Pd ne uscirà ancora più bipolarista. Ma sarà un bipolarismo gentile e rispettoso». 
Lei e Letta siete due galli nello stesso pollaio.  
«Ma che dice? Sarebbe un errore replicare il modello Veltroni-D’Alema».  
Vi siete parlati a Palazzo Chigi.  
«Senza giri di parole, come d’abitudine. La tensione si è scongelata subito: ci siamo mandati a quel paese nei rispettivi slang». 
Cioè?  
«Io l’ho insultato in fiorentino, lui mi ha risposto in pisano». 
Sempre meglio delle battute lassative di Crimi su Berlusconi.  
«Al confronto dei leader Cinquestelle, Alvaro Vitali è uno statista». 
Torniamo a Letta.  
«Gli ho detto che, se diventassi segretario del Pd, non mi chiederei ogni giorno cosa fare per danneggiare lui e Alfano. Il mio non sarebbe un Pd con la matita rossa e blu per fare le pulci al governo». 
Dicono fosse ancora arrabbiato per il suo viaggio dalla Merkel.  
«Ma no. Mi aveva cercato lei, dopo aver letto una mia intervista sul vostro giornale. Ho preso un volo privato, il colloquio era previsto dalle 6 e 30 alle 7 e 30. Mi ha ricevuto alle 6 e 28 e alle 7 e 28 ha guardato l’orologio e mi ha congedato. Ama l’Italia, ci sta aspettando. Dice che abbiamo un grande leader, Napolitano. E mi ha parlato bene anche di Enrico». 
In Germania avrebbe votato per lei?  
«Da dirigente politico avrei votato Spd, per senso di appartenenza. Da cittadino non so. Quella donna mi ha colpito. Anche se nemmeno lei sta affrontando il vero tema: cambiare l’Europa. Perché è l’Europa in crisi, non un solo Paese». 
Immaginiamo il tormentone dei prossimi mesi-anni. Lei che smania per tornare alle urne e gli altri che diranno: nel 2014 non si può perché c’è il semestre europeo a guida italiana, nel 2015 nemmeno perché c’è l’Expo.  
«E nel 2016 le Olimpiadi in Brasile. Ma sento di poter annunciare che nel 2018 si voterà nonostante i Mondiali di calcio in Russia». 
Non teme di finire nel congelatore?  
«Solo nell’ultimo anno sono sopravvissuto a sette-otto sconfitte definitive. Volete capire che sono molto ambizioso, ma non ho fretta? Se Enrico dura dieci anni, farò dell’altro. Tanto fra dieci anni avrò l’età che lui ha adesso». 
Risposta bella forte. E un po’arrogante.  
«Sono pieno di difetti, dalla A di arroganza alla Z di zuzzurellone. Ma la A di ambizione mi sta bene. Perché avere l’ambizione grande di cambiare l’Italia non lo considero un difetto».  
Da Berlusconi a Grillo, tutti i leader dell’ultimo ventennio hanno fondato un partito. Perché lei si ostina a volere trasformare uno già esistente?  
«Il modello del partito personale è fallito. Del resto siamo arrivati alla vergogna per cui Bossi e Di Pietro hanno candidato i figli al consiglio regionale». 
Non vuole fondare un partito nuovo, però vuole comandare su quello vecchio.  
«La parola leadership non è una parolaccia. C’è una sinistra che rifiuta l’idea dell’uomo solo al comando. Fausto Coppi. Ma in un gruppo ci vuole sempre quello che si alza sui pedali. Un leader è uno che sceglie persone più brave di lui». 
Non sarà facile, visto che tutti stanno salendo sul suo carro.  
«In uno dei miei soliti eccessi di autostima, dico: le critiche dei prevenuti e le lusinghe dei ruffiani non avranno il potere di cambiarmi». 
I dipendenti del Pd temono di essere licenziati.  
«Il problema non è il personale, ma certo qualcosa si può risparmiare: ha senso spendere 9 milioni in comunicazione, due in consulenze, uno e mezzo in ristoranti e in alberghi? La sobrietà deve iniziare a casa nostra». 
Si può tagliare la spesa senza licenziare i dipendenti pubblici? Fassina dice di no.  
«Fassina non è cattivo, ma non ha mai amministrato nulla, non sa di cosa parla. Ormai lui dichiara a piacere su tutto. Lasciate fare a noi amministratori. Certo, va aumentata la produttività. Il forestale della Calabria deve sapere che con me non verrà licenziato, ma dovrà lavorare moltissimo».  
Chi pagherà il conto della sua rivoluzione?  
«Bisogna toccare i diritti acquisiti. Chi percepisce pensioni d’oro su cui non ha versato tutti i contributi deve accettare che sulla parte “regalata” venga imposto un prelievo»
Il suo Pd sarebbe a favore della patrimoniale?  
«Molti amici imprenditori si dicono pronti a pagarla, ma prima chiedono che la politica dia il buon esempio. In ogni caso è prioritario assicurare una tregua fiscale. Se io pago, tu Stato devi smetterla di venirmi continuamente a controllare. Chi governa deve pensare che sta regalando qualcosa a qualcuno che ama. Se vuoi riformare la scuola, pensa a tuo figlio. Se vuoi favorire il lavoro, sfronda le duemila norme che lo regolano: ne bastano cinquanta». 
Lo dice anche Letta.  
«Ma queste cose devi farle subito e tutte insieme. Il cartellino giallo al ventesimo minuto. I primi cento giorni di governo sono decisivi». 
L’establishment non si fida di lei.  
«E fa bene. Può darsi che io non arrivi mai al traguardo. Ma se ci arrivo, è per cambiare le cose davvero. La crisi ha fatto passare in secondo piano l’aumento dell’Iva, i casi Telecom e Alitalia. La classe imprenditoriale, bancaria e universitaria dov’è stata in questi vent’anni? Abbiamo avuto un capitalismo familista, non familiare. Un sistema di poteri forti dal pensiero debole. Faccio il verso a De André: “Per quanto vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”». 
Letta passa per l’uomo dell’establishment che lei vuole rottamare.  
«La rappresentazione mediatica ha una sua fondatezza nelle nostre diverse modalità di esprimerci. Ma anche Letta ha capito che bisogna cambiare. E sa che, con me segretario, il governo sarebbe più forte, non più debole». 
Ci sono sgarbi che non ha dimenticato?  
«Casini che, a urne delle primarie aperte, dice: Renzi è come Berlusconi. E la Camusso: vanno bene tutti tranne Renzi. Cadute di stile frutto della paura».  
Non è che, arrivato a Palazzo, poi si mette in riga come gli altri?  
«Io non logoro. Strappo. Non ho lo stile democristiano del conte zio di Manzoni, quello di “sopire, troncare”». 
Il conte zio sarebbe Gianni Letta?  
«Questa è buona, ma io sono fra Cristoforo. Perciò forse non diventerò mai padre provinciale. Il mio mito è Rosario Livatino, il giudice-ragazzino ucciso dalla mafia. Diceva: “Alla fine non ti chiederanno quanto sei stato credente, ma quanto sei stato credibile”». 
Sua moglie Agnese…  
«Alt. La famiglia non si tocca. Agnese insegna italiano e latino. Precaria. Al Maggio Fiorentino le presentai Monti, allora premier. “Ha partecipato al concorsone?”, le chiese. “Sì”. “Allora converrà che il mio governo qualcosa di buono l’ha fatto”. E lei: “Direi proprio di no”. Aveva ragione mia moglie, stanno ancora aspettando i risultati del concorso». 
Sarebbe un ottimo segretario del Pd.  
«Ma resta fuori dalle interviste. Come i figli. Mi sono sentito vecchio il giorno in cui il più grande ha messo il pin al telefonino. “Tu non lo mettevi alla mia età?”, mi ha chiesto. Gli ho risposto che alla sua età non avevo il telefonino. E lui: ma come facevi a telefonare?». 
Ha fatto un figlio a 26 anni e le danno del bambino.  
«Bisogna vedere da chi viene la predica. La mia è una generazione cresciuta senza padri. La rottamazione è stata una rivolta contro una paternità politica che non era tale. I nostri leader erano cugini, tutt’al più fratelli maggiori. Non scogli, ma ostacoli».
Sua figlia ha sette anni.  
«E sa già chi sono Epifani e la Camusso». 
Roba da Telefono Azzurro.  
«È un “mostro” come me, che a dieci anni guardavo i programmi elettorali in tv e al telefono riferivo a mio padre, sinistra Dc, cosa aveva detto De Mita». 
Adesso De Mita dice: Renzi è un torrente che non diventerà mai fiume. Scalfari ha concordato con lui. Aggiungendo che il fiume è Letta.  
«Sono contento di non essere oggetto di una previsione positiva della coppia De Mita-Scalfari. Non ne hanno mai azzeccata una». 
La accusano di essere inconsistente. Ha visto l’imitazione di Crozza? I Renzini: 30% di Baricco e 40% di niente, in un cuore di cioccolato…  
«Spero che Baricco non quereli… Ma il fatto di dire frasi secche non significa che dietro non ci sia elaborazione del pensiero». 
Il perfido D’Alema sostiene di essere venuto a trovarla per vedere che libri leggeva.  
(Renzi - ora siamo nel suo ufficio - gira intorno al tavolo e palpa due volumi di peso). «Alda Merini e Luzi. In questo periodo leggo poesie. Per mettere a fuoco i concetti». 
È tornato su Twitter.  
«L’avevo rimosso. Poi l’ho rimesso. È bellino. Certo, devi darti un limite. (Smette di scorrere i pollici sullo smartphone e li sposta su un pezzo di stoffa nera, dove continua a sgranchirli per non perdere l’allenamento)». 
I pensieri di Cuperlo sono troppo lunghi per Twitter.  
«Gianni è in gamba. Garba molto a noi addetti ai lavori, fuori non so. Io e lui siamo come i protagonisti del racconto di Chesterton in cui un laico e un cattolico si sfidano a duello, ma poiché non li lasciano combattere, diventano amici per trovare un posto dove duellare. Però nel 1999 era a Palazzo Chigi con D’Alema: dov’è stato in questi anni? Lui pensa abbia fallito solo la destra. Invece dobbiamo ridisegnarci anche noi». 
Lo diceva già Veltroni al Lingotto, quando battezzò il partito.  
«Walter aveva scritto il film giusto, ma ha sbagliato a credere che potessero recitarlo gli attori che avevano trasformato le pellicole precedenti in un flop. Nel mio Pd andranno avanti i più bravi, non i più fedeli. Dichiarerò guerra alla mediocrità». 
Come si immagina, da segretario?  
«A piedi tra la gente e non in auto col lampeggiante. Un segretario deve farsi vedere in giro. È in campagna elettorale permanente». 
Letta ne sarà entusiasta. Continuerà a fare il sindaco?  
«Il segretario non deve mica passare il tempo barricato in sede a gestire incarichi e spartire poltrone. Provo avvilimento quando vado in Rai e qualche dirigente mi dice: io sto con te. Ma che mi frega con con chi stai! ».  
Ha sentito le intercettazioni in cui la democratica Lorenzetti ordina a una professoressa di favorire l’esame di un suo protetto?  
«Spero licenzino quella professoressa. Però è sbagliato dire che Lorenzetti e Penati sono uguali a Berlusconi. Lui è un unicum. Ma sia chiaro che non credo alla superiorità morale della sinistra, semmai a quella del coraggio sulla paura e dell’altruismo sull’egoismo». 
Questo “renzino” dove l’ha partorito?  
«Non è mio, è di Oscar Farinetti: eravamo al secondo giro di Barolo». 
Dicono che tra gli elettori di centrodestra lei piaccia meno di un tempo.  
«Non piaccio ai loro giornali, che prima mi esaltavano e ora mi massacrano. Mi hanno fatto la prova-calzino. Di me si sa tutto, che bici e che mutui ho. Ma sono tranquillo. Mio cognato non ha la casa a Montecarlo ma a San Godenzo».  
Il famoso metodo Boffo evocato anche dalle colombe alfaniane.  
«Trovo inaccettabile che denuncino il metodo Boffo solo adesso e non quando veniva usato contro gli altri». 
Briatore, Cavalli, Signorini. Ormai le manca solo un aperitivo con Dudù. Quando incontrerà Zagrebelsky? 
«Ho incontrato anche Zagrebelsky, solo che non fa notizia. Dudù invece mi manca. Ma posso resistere». 
Una settimana alla campagna delle primarie. Trovato lo slogan?  
«L’Italia cambia verso»
Bel gioco di parole.  
«Sarà una campagna diversa, rispetto all’altra volta. Non un “one man show” da uno contro tutti. Girerò di meno e senza camper, ho ancora mal di schiena. Vorrei che Pd diventasse sinonimo di leggerezza calviniana. Per vent’anni abbiamo fatto la faccia triste perché dall’altra parte c’era un sorriso finto. Farò una campagna allegra. Anche se andrò in luoghi drammatici, dal Sulcis a Lampedusa. La Bossi-Fini va cambiata. E l’Europa… Basta con questo andazzo per cui quando si tratta di sistemare le banche si va a Francoforte, mentre quando si tratta di sistemare le salme ognuno pensa ai fatti suoi».  
Sono scomparse le polemiche sulle primarie.  
«Perché stavolta sono aperte. Può votare anche chi non sa a memoria l’Internazionale o gli Inti Illimani». 
Lei li ha mai cantati?  
«El pueblo unido jamas sera vencido. Cosa diceva Vecchioni? Pallosa come una canzone degli Inti Illimani…». 


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