Più di duecento persone hanno partecipato il 20 febbraio 2015, al Dialogo
sulla felicità tenutosi nell’Aula Magna del Seminario vescovile di Nola. Due
gli illustri relatori: il docente di filosofia Salvatore Natoli e il vicepriore
della Comunità di Bose, Luciano Manicardi. Pur guardando alla felicità da
prospettive diverse, sono emersi molti punti di contatto tra le posizioni dei
relatori. Entrambi hanno rilevato infatti che nel senso comune la felicità sia
percepita come qualcosa che ci tocca per alcuni attimi ma che non ci
appartiene. Di essa si fa infatti esperienza in modo sentimentale, vivendola
quindi nei termini di intensità e di labilità insieme.
La felicità,
illusoria ed effimera
Come ricordato dal professor Natoli, questa visione superficiale della
felicità come illusoria ed effimera espansione di noi stessi sembra essere
patrimonio comune all’umanità di ogni tempo. L’analisi etimologica delle parole
tramite le quali le diverse lingue esprimono il concetto di felicità, denuncia
infatti l’idea ricorrente di un benessere improvviso dovuto al caso. Platone,
per esempio, nel discorso sulla felicità partiva da Afrodite adottando il
modello orgasmico del culmine e della caduta. Agostino di Ippona, che
pure vedeva nella felicità la ragione del filosofare, la definiva come raptim quasi per transitum. Mentre
secondo Freud la felicità non stava tanto nel momento dell’eccitazione
ma nella tregua della pulsione.
La felicità tra
Cristianità e Cristianesimo
Natoli, d’accordo con Manicardi, a riguardo distingue nettamente tra
Cristianità e Cristianesimo. Ovvero tra la felicità della visione cristiana e
quella che si sarebbe invece imposta nel mondo cristiano. La Cristianità
avrebbe infatti relegato la felicità al mondo ultraterreno rendendo così meno
vivibile quello terreno. Il modello a cui guarda invece Natoli è quello greco,
a partire da Aristotele che considerava la felicità come il fine della vita.
Per l’uomo greco la felicità era possibile e risiedeva nella virtù. Non nella
virtù castrante che avrebbe caratterizzato la Cristianità nell’idea del
virtuoso infelice e del trasgressivo gaudente, bensì nell’ars vivendi: l’arte del
vivere che appartiene ad ogni uomo. Il greco ascoltava la voce del suo daimon e
faceva proprio la massima delfica del Conosci te stesso. In questo modo
conosceva le sue potenzialità e imparava a trarsi fuori dalle difficoltà. La
felicità non era quindi premio delle virtù ma risiedeva nell’esercizio stesso
di queste ultime. L’uomo greco era l’autore della propria realizzazione,
l’artista della sua esistenza.
Gesù ha vissuto una vita felice? E’ questa la provocazione che guida invece
l’intervento di Luciano Manicardi. Anche secondo lui, riprendendo
un’affermazione di Adorno, la
felicità non si possiede ma si è in essa. Anche il monaco di Bose parte
dall’analisi linguistica rifacendosi però all’origine indoeuropea della parola
“felicità” che rimanda alla fecondità, al dare frutti. Da questo punto di
vista, quella di Gesù Cristo fu senza dubbio una vita felice. E infatti è la
Scrittura stessa ad attestarlo. Il Vangelo di Luca riporta il trasalire di
gioia di Cristo nel ricordare la preferenza divina per i piccoli rispetto ai
dotti e ai sapienti (Lc 10, 21-24). La sorgente della
felicità di Gesù era quindi la relazione col Padre nella quale erano però
compresi anche i discepoli. Anche per Manicardi, come per Natoli, la felicità è
sempre inclusiva e consiste nel donare e nel donarsi. Se però per il filosofo la
questione del dare è più problematica (cosa dare all’altro? Come capire cosa
davvero gli serve? Come donare senza rischiare di invaderlo?), per il monaco
l’esempio di Cristo è liberante. Quello di Gesù è infatti simultaneamente un
dare tempo, ascolto e presenza. È un parlare che ascolta e che quindi fa
emergere l’altro. L’insegnamento secondo cui c’è più gioia nel dare che nel
ricevere (Atti 20, 35) è comprensibile
solo nella prospettiva delle beatitudini, dove il rovesciamento del concetto
mondano di felicità ha esiti apparentemente paradossali.
Il segreto della
felicità
Se la felicità è donarsi, gli esatti contrari sono l’invidia e la
concupiscenza che schiaccia gli altri e se ne serve. Entrambe queste cose
impediscono la felicità propria e quella altrui, perché fare male è anche farsi
male. In conclusione, per entrambi i relatori la felicità sta nella semplicità
e nella bontà di cuore. Nel sapersi meravigliare delle piccole cose, guardando
le cose ordinario in modo straordinario e mantenendo sempre una giusta
relazione (che non è mai il possesso) con tutto quello che ci circonda.
Due miei punti di vista:
1) Gli impiccati sono dei
di-sperati che cercano l’unica via di uscita che ritengono di poter utilizzare;
e non sono solo i condannati in prigione: quel che fa raccapriccio è il
fallimento di uno stato che vendica la colpa e non offre la via della
redenzione.
2) Opto per la felicità feconda
(come suggerisce l’etimologia del termine): l’esistenza terrena è ben triste se
serve soltanto per nascere-crescere- decrescere-morire. Ma il rimedio per
perpetuare la vita non è generare figli (nella discendenza potrebbe esserci
degli infelici…); è lasciare una traccia di Bene.
b) Gli impiccati
A volte penso che molti detenuti che in
carcere si tolgono la vita forse scelgono di morire perché si sentono ancora
vivi. E forse, invece, alcuni rimangono
vivi perché si sentono già morti o hanno già smesso di vivere. Credo anche che molti detenuti si tolgano la
vita perché l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) non risponde mai ai loro
appelli disperati. Altri invece lo fanno per ritornare a essere
uomini liberi. E molti si tolgono la vita perché non hanno altri modi per
dimostrare la loro umanità.
Oggi
nella rassegna stampa ho letto la notizia di un altro suicidio, poche parole,
pochi dati:
Si chiamava Osas Ake. Si è impiccato nel carcere di Piacenza. Era in cella di isolamento perché "molto agitato". Aveva 20 anni, era nigeriano.
Si chiamava Osas Ake. Si è impiccato nel carcere di Piacenza. Era in cella di isolamento perché "molto agitato". Aveva 20 anni, era nigeriano.
Ed ho pensato a quella volta che ero entrato
in una cella dove s’era impiccato un detenuto: Piano terra, cella 17. La chiave
non girava. La mandata non scattava. Il blindato non si apriva.
Mi stanco di aspettare con il sacco nero
della spazzatura con dentro la mia roba personale sulle spalle. La poso in
terra e chiedo alla guardia: Ma da quando è che non aprite questa porta? La
guardia prima di rispondermi mi guarda con sufficienza, dall’alto al basso e
poi ringhia: Da alcuni mesi, c’erano i sigilli giudiziari, c’è stata
un’inchiesta, quello che c’era prima si è impiccato tra le sbarre. Puzzava di
galera. Aveva una faccia da beccamorto. Una faccia di vampiro sfortunato che
non riceveva da tempo una sufficiente razione di sangue. Gli dico: Mettetemi in
un’altra cella.
La faccia da beccamorto mi risponde: Non sei
in albergo, qui sei a Nuoro e poi celle libere non ce ne sono. E poi urla alla
guardia del piano di sopra: Collega, manda quelli della manutenzione: la porta
non si apre. Io intanto aspetto. Dopo dieci minuti arriva una guardia con due
lavoranti e un cannello con la fiamma ossidrica. Tagliano la serratura e ne
saldano una nuova. Entro, mi chiudono il cancello e mi lasciano il blindato
aperto. Mi guardo intorno, non mi muovo, rimango fermo e vedo escrementi di topo dappertutto,
ragnatele al soffitto, macchie di umidità alle pareti. Ero arrivato all’inferno
di Badu e Carros. E pensai per un attimo di impiccarmi anch’io alle sbarre
della finestra. Solo i coraggiosi però hanno il coraggio di evadere dal
carcere, i vigliacchi come me rimangono.
Ed io sono rimasto in quella cella per cinque lunghi anni. Poi ho saputo che il
compagno che s’era tolto la vita in quella cella era un ergastolano ostativo. E
sono diventato amico del suo fantasma che mi ha tenuto compagnia per tanti
anni.
Carmelo Musumeci - Febbraio 2015
Due miei punti di vista:
1) Gli impiccati sono dei di-sperati che cercano l’unica via di uscita che ritengono di poter utilizzare; e non sono solo i condannati in prigione: quel che fa raccapriccio è il fallimento di uno stato che vendica la colpa e non offre la via della redenzione.
2) Opto per la felicità feconda (come suggerisce l’etimologia del termine): l’esistenza terrena è ben triste se serve soltanto per nascere-crescere- decrescere-morire. Ma il rimedio per perpetuare la vita non è generare figli (nella discendenza potrebbe esserci degli infelici…); è lasciare una traccia di Bene.
Nessun commento:
Posta un commento