martedì 17 dicembre 2013

Discorso di Napolitano

[Mi concedo qualche sottolineatura là dove le parole
mi sembrano sprecate, e una riflessione finale]
DISCORSO PRONUNCIATO DA NAPOLITANO
 IL 16 DICEMBRE 2013
Ringrazio vivamente il Presidente Grasso per le sue calorose e meditate parole e gli ricambio un sincero augurio per il prossimo anno : l’augurio, innanzitutto, che nelle Assemblee – pilastro della nostra democrazia – che egli e la Presidente Boldrini guidano, hanno il difficile compito di guidare, possa affermarsi in ogni momento un clima di civile confronto e di fruttuoso impegno, nel rispetto dei diritti di tutte le forze che vi sono rappresentate e nella riaffermazione delle regole che le Camere si sono date.
L’augurio che rivolgo in pari tempo a voi tutti si accompagna – secondo la tradizione di questo incontro prenatalizio – ad una rassegna dei principali eventi dell’anno trascorso e quindi dei problemi che abbiamo davanti nell’esercizio delle nostre responsabilità in seno alle istituzioni, al servizio dello Stato democratico e della comunità nazionale.
E non c’è dubbio che dall’incontro del 17 dicembre 2012 ad oggi l’Italia abbia conosciuto mutamenti incalzanti della scena politica, mutamenti ancora lontani da un chiaro assestamento e tali da presentare incognite non facilmente decifrabili.
Voi mi permetterete tuttavia di partire da qualche considerazione più ampia su quel che si muove nella realtà sociale – preoccupazioni, interrogativi, orientamenti e tendenze, riconducibili a questioni vitali per diversi ceti e gruppi sociali, e da valutare nel loro incrociarsi con la dimensione della politica e con la sfera delle scelte di governo.
Questioni vitali sono certamente quelle con cui si sono confrontate una miriade di imprese condannate a soccombere o ancor oggi sull’orlo del collasso, masse di lavoratori costretti alla Cassa Integrazione o esposti alla perdita del lavoro, un’altissima percentuale di giovani chiusi nel recinto di una disoccupazione ed emarginazione avvilente. Il governo registra in questo momento con comprensibile soddisfazione l’arresto dalla caduta del PIL, ma la recessione morde ancora duramente, e diffusa appare la percezione della difficoltà ad uscirne pienamente, a imboccare la strada di una decisiva ripresa della crescita.
E in effetti occorrono ancora forti stimoli, a integrazione di quelli introdotti con misure approvate dal Parlamento nel corso di quest’anno e già dell’anno precedente, con un succedersi di sforzi dei quali vanno peraltro verificati concretamente i risultati, resi incerti anche da lentezze e impacci nell’attuazione che rimandano a tradizionali insufficienze delle nostre amministrazioni.
La massima attenzione va data a quanti non sono raggiunti da risposte al loro disagio : categorie, gruppi, persone, che possono farsi coinvolgere in proteste indiscriminate e finanche violente, in un estremo e sterile moto di contrapposizione totale alla politica e alle istituzioni.
Occorre perciò accompagnare il più severo richiamo al rispetto della legge con la massima attenzione a tutte le cause e i casi di più acuto malessere sociale. La crisi globale che si trascina dal 2008 e quella che ha poi più direttamente investito l’Eurozona, hanno messo a dura prova la coesione sociale nel nostro come in altri paesi.
Le più elaborate previsioni internazionali per il 2014 segnalano un rischio diffuso di tensioni e scosse sociali – originate dalle regressioni e dalle crescenti diseguaglianze subite in questi anni – in modo particolare nel nostro Continente. Un rischio che si presenta naturalmente non nella stessa misura in tutti i paesi dell’Unione, ma che deve essere tenuto ben presente e fronteggiato in Italia.
Da noi poi il malessere sociale (e non mi riferisco solo alle sue manifestazioni più virulente e anche strumentali) si esaspera nel confronto con i fenomeni di corruzione o insultante malcostume che si producono nelle istituzioni politiche, anche al livello regionale, e negli apparati dello Stato, così come con ogni sorta di comportamenti volti a evadere o alterare l’obbligo della lealtà fiscale.
Le risposte tese a contrastare il radicarsi di malcontento sociale e sfiducia politica, debbono dunque abbracciare in uno stesso impegno decisioni di risanamento della vita politico-istituzionale (come quelle che incidano radicalmente sul finanziamento dei partiti), misure sociali di sostegno per i settori più colpiti e per le fasce più deboli della popolazione, indirizzi di efficace rilancio dell’economia e dell’occupazione. Ben attenti, questi ultimi, e fortemente rivolti al Mezzogiorno, dove più pesano i contraccolpi della crisi e dove peraltro si giuoca la partita decisiva per un nuovo sviluppo nazionale.
In queste direzioni si è impegnato a intervenire più risolutamente il Presidente del Consiglio, presentandosi al Parlamento per una nuova investitura, che Camera e Senato gli hanno accordato, anche in funzione di un patto programmatico di coalizione per il 2014. Di tale patto sono stati nel discorso del Presidente Letta anticipati molti elementi concreti, e qualche significativa deliberazione è subito seguita in sede di Consiglio dei Ministri. Giudice di tali intenti e atti è, come sempre, soltanto il Parlamento. Governo, Parlamento, Presidente della Repubblica : ciascuna istituzione ha le sue, ben distinte responsabilità. Le sorti del governo poggiano soltanto sulle sue forze, sono legate soltanto al rapporto di fiducia con la sua maggioranza. E’ nel pieno rispetto dell’autonoma responsabilità del governo che il Capo dello Stato interviene in spirito di cooperazione e con contributi di riflessione – secondo l’esempio dato per primo da Luigi Einaudi, il cui “Scrittoio del Presidente” testimonia la straordinaria molteplicità di tematiche e di forme di manifestazione del suo pensiero, specie in rapporto a proposte di legge del governo in carica, nel corso di quel pioneristico settennato.
Ma mi preme ora, riprendendo il filo del mio discorso, evitare l’equivoco di una lettura – da parte mia – unilaterale e dominata dalle ombre, della realtà sociale, di quel che si muove nella realtà profonda del paese. Perché ho occasione di incontrarne e osservarne molte diverse espressioni, che alimentano una ragionata fiducia nel futuro. Mi riferisco innanzitutto al contributo che l’area delle imprese più innovative e competitive sta dando alla tenuta e al prestigio del nostro sistema industriale, benché vulnerato in non pochi punti. E inoltre meritano attenzione tendenze – messe in luce da accurate analisi del Censis – alla crescita, in questi anni di crisi, di nuove soggettività imprenditoriali : donne titolari di impresa, immigrati che si assumono il rischio di avviare nuove iniziative economiche.
In un contesto sociale non immobile, in una compagine nazionale molto diversificata anche sul piano culturale e comportamentale, vediamo manifestarsi fortemente l’Italia della solidarietà e dell’impegno civile, chiamata di recente a prove drammatiche, vediamo crescere la sensibilità per i valori dell’ambiente e della salute, per la salvaguardia del territorio, per la tutela del patrimonio naturale e culturale, in risposta a guasti e inquinamenti anche criminali di cui si rivela il gravissimo danno.
Traiamo da ciò motivi di fiducia, cogliendo segni di rinnovato impegno per il futuro del nostro paese. Ne traiamo dai riconoscimenti che ottiene in molte sue articolazioni e personalità, il mondo della nostra ricerca scientifica, nonostante tante ristrettezze e difficoltà. Traiamo motivi di fiducia dagli esempi, non marginali, di una volontà che è presente tra i giovani di non rassegnarsi, di farsi sentire con forza, di sollecitare politiche che aprano loro nuovi sbocchi. Specialmente tra i giovani che fanno o vogliono fare ricerca emergono, l’ho constatato in frequenti e diverse occasioni, passione, impegno incondizionato, motivazione specifica, talento.
E questi sono segnali importanti per affrontare al meglio la sfida più complessa, la sfida cruciale di una ripresa economica che produca più occupazione e buona occupazione soprattutto per i giovani. Il nodo essenziale risulta ormai chiaramente quello della creazione di nuove opportunità di lavoro, di una formazione che prepari a nuove prestazioni professionali in campi diversi da quelli prevalenti nel passato, ovvero rispondenti a cambiamenti tecnologici già intervenuti e tendenziali, a mutamenti di fondo nella fisionomia economico-sociale di un paese come il nostro.
Se si può nutrire e trasmettere fiducia nell’avvenire dell’Italia, e se ci si può provare a disegnarlo, l’anello che ancora manca è il passaggio a una mobilitazione collettiva, a una ripresa di vigore e operosità, indispensabile oggi per risalire la china. Questa consapevolezza dovrebbe animare tutte le forze sociali e politiche responsabili : e penso che in tale direzione vada il riavvicinamento prodottosi tra le rappresentanze imprenditoriali e quelle del mondo del lavoro.
La consapevolezza della politica e delle istituzioni dovrebbe concentrarsi su riforme per il lavoro, e su riforme dell’ordinamento della Repubblica in assenza delle quali nessuno slancio nuovo può prodursi, nessun impulso atteso da azioni immediate o da indirizzi di governo di più lungo termine può tradursi in realtà, può davvero dare frutti.
E vengo allora al tema delle riforme, almeno per l’aspetto a me – nell’esercizio delle mie funzioni – più congeniale : quello delle riforme costituzionali. Su questo tasto ho battuto fin dall’inizio del mio mandato e all’indomani del rigetto – nel referendum confermativo – dell’ampia legge di revisione costituzionale approvata nel 2005 dal Parlamento con una maggioranza non di due terzi. Sostenni allora che restavano compatibili con quel verdetto referendario proposte di modifiche magari più circoscritte e “mirate” della seconda parte della Costituzione. E tentativi in quel senso, sulla base di un possibile ampio consenso parlamentare, non sono mancati anche nella fase conclusiva della XVI Legislatura, ma infine abortendo per improvvide forzature politiche.
Mi sono tuttavia più che mai confermato in una precisa convinzione. Riforme come quelle del superamento del bicameralismo paritario, dello snellimento del Parlamento, della semplificazione – in chiave di linearità e di certezza dei tempi – del processo legislativo, o come la revisione del Titolo V varato nel 2001, sono ormai questioni vitali per la funzionalità e il prestigio del nostro sistema democratico, per il successo di ogni disegno di rinnovato sviluppo economico, sociale e civile del nostro paese nel tempo della competizione globale.
Tale convinzione era stata pienamente condivisa dalla maggioranza che fece nascere nell’aprile scorso il governo Letta accordando la fiducia al programma che comprendeva tra i suoi elementi costitutivi quel disegno, appunto, di riforme costituzionali. E oggi vorrei rivolgere uno schietto appello al partito che il 2 ottobre scorso si è distaccato dalla maggioranza originaria guidata dal Presidente Letta, perché quella rottura non comporti l’abbandono del disegno di riforme costituzionali, di cui sono state poste le premesse tra giugno e settembre con la relazione della Commissione presieduta dal ministro Quagliariello. Nel ringraziare ancora per l’impegno disinteressato e costruttivo i membri di quella Commissione, esprimo l’opinione che sarebbe dissennato buttar via quel prezioso telaio propositivo e rinunciare a trarne le conclusioni che spettano al Parlamento.
Il mio appello a collaborare al percorso delle riforme costituzionali indispensabili è rivolto anche a forze di opposizione che hanno osteggiato il provvedimento procedurale contenente deroghe all’articolo 138 della Costituzione, ma non, in linea pregiudiziale, la scelta di determinate riforme. La ricerca della più larga convergenza a questo riguardo in Parlamento, resta sempre uno sforzo da compiere, e non ha nulla a che vedere con il concordare o il contrastare larghe intese o grandi coalizioni di governo. Mancare anche questa volta l’obbiettivo della revisione della II parte della Costituzione sarebbe fatale per il rilancio delle potenzialità e del progresso della nazione. Quell’obbiettivo era stato tracciato già nel 1992 nel messaggio d’insediamento del Presidente Scalfaro nel cui solco mi sono in questi anni conseguentemente mosso.
Quelle riforme, insieme con una nuova legge elettorale di cui presto dirò, sono indispensabili anche per rafforzare “il principio maggioritario” che l’Italia ha assunto dal 1993-94 – così mi espressi nel mio primo messaggio al Parlamento – “come regolatore di una operante democrazia dell’alternanza”. “La maturità di un sistema politico bipolare” – aggiunsi – implica “il reciproco riconoscimento, rispetto ed ascolto tra gli opposti schieramenti” e anche l’individuazione dei “temi di necessaria e possibile convergenza tra essi nell’interesse generale”. Temi come quelli, innanzitutto, delle modifiche costituzionali.
Nessun equivoco o contrapposizione, dunque, tra piani diversi nei rapporti politici e istituzionali, il piano delle riforme e delle regole e il piano delle scelte e delle responsabilità di governo. Non tornerò sull’ampia disamina che feci, a suo tempo, del processo che condusse alla nascita del governo Monti nel novembre 2011 e della singolare fisionomia di quel governo. Con la formazione del governo Letta dopo le elezioni del febbraio di quest’anno prese corpo, più esplicitamente in termini politici, una maggioranza analoga per ampiezza a quella precedente. Sia l’una che l’altra hanno però conosciuto una rottura e fine precoce.
Volendo dare di ciò la lettura più obbiettiva, dirò che, per vicende antiche e recenti, in Italia non sono risultate mature o percorribili senza tensioni distruttive soluzioni di governo a tempo determinato basate sulla collaborazione eccezionale tra forze politiche tradizionalmente antagoniste. Soluzioni di quel tipo si sono di recente imposte come necessarie per via del risultato stesso delle elezioni anche in paesi caratterizzati storicamente per il bipolarismo del sistema politico, per l’alternanza al governo tra schieramenti concorrenti. Da noi, la formazione, a fine aprile, del governo Letta non rispecchiò un ripudio della competizione bipolare, ma rappresentò il solo modo di fare i conti con la realtà del Parlamento uscito dal voto di febbraio. Sono però prevalsi negli ultimi mesi fattori di divisione in quella maggioranza, che si è potuta riprodurre solo su scala più ridotta e in discontinuità con l’intesa iniziale.
Importante, tuttavia, è che su queste basi l’Italia continui a essere governata, innanzitutto nel così impegnativo 2014 che sta per cominciare. L’Europa ci guarda ed è diffusa, credo, tra gli italiani la domanda di risposte ai loro scottanti problemi piuttosto che l’aspettativa di nuove elezioni anticipate dall’esito più che dubbio.
E’ perfino banale ribadire che la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata. Non c’è nulla che assomigli a una concessione all’inerzia e all’inefficienza, nella preoccupazione di evitare un cieco precipitare verso nuove elezioni a distanza ravvicinata dalle precedenti. Il Parlamento, rinvigorito da più giovani forze e da nuove leadership in diverse formazioni politiche, faccia la sua parte per sollecitare, discutere, sostenere scelte efficaci di governo; si impegni a fondo sul terreno delle riforme costituzionali; elabori una nuova legge elettorale. Anche per quest’ultima si dialoghi e si cerchino intese – come si conviene quando si tratti di regole così essenziali – innanzitutto nella maggioranza di governo ma, nella massima misura possibile, anche con tutte le forze di opposizione.
Sul terreno delle regole per l’elezione del Parlamento e quindi per la formazione del governo, si è in Parlamento – sono costretto a ripeterlo – imperdonabilmente pestata l’acqua nel mortaio nella precedente legislatura e, ancora per mesi, in quella attuale. Posizioni e rigidità contrapposte hanno nuovamente provocato un’impotenza a decidere, pur nell’avvicinarsi dell’udienza annunciata della Corte Costituzionale per l’esame delle questioni sottopostele dalla Cassazione. Il 23 ottobre scorso, intervenendo all’Assemblea dell’ANCI a Firenze, dissi senza mezzi termini :
“La dignità del Parlamento e delle stesse forze politiche si difende non lasciando il campo ad altra istituzione, di suprema autorità ma non preposta a dare essa stessa soluzioni legislative a questioni essenziali per il funzionamento dello Stato democratico. Non è ammissibile che il Parlamento naufraghi ancora, a questo proposito, nelle contrapposizioni e nell’inconcludenza.”
Ma nemmeno nel mese e più che restava – in quel momento – in vista dell’udienza del 3 dicembre della Corte Costituzionale, si fu capaci – nella Commissione del Senato investita delle proposte in materia elettorale – di approvare alcunché. D’altronde, già nel gennaio 2008 con la sentenza n.15 di quell’anno, la Corte aveva avvertito “il dovere di segnalare al Parlamento l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordini l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una quota minima di voti e/o seggi”.
Questi inviti da tempo rivolti al Parlamento erano stati richiamati criticamente dal Presidente della Corte Gallo dopo l’insediamento delle nuove Camere elette nel febbraio di quest’anno, e inoltre da tempo le forze parlamentari da me consultate in proposito si erano dichiarate convinte della necessità di modificare la legge elettorale approvata in Parlamento nel 2005 e funzionante dalle elezioni del 2006.
Nella persistente inazione del Parlamento, la Corte non ha potuto che condursi come sempre nell’affrontare questioni di legittimità costituzionale di qualsiasi legge approvata dal Parlamento e poi sottoposta al suo esame : verificarne l’ammissibilità, dichiarare l’illegittimità – ove la trovi fondata – dell’intera legge o di sue singole norme. Essa ha seguito, nel caso di cui parliamo, questa seconda strada, non certo esprimendo una preferenza per l’uno o l’altro sistema elettorale che ne potesse automaticamente scaturire, ma lasciando libera e aperta dinanzi al Parlamento la scelta di una compiuta, nuova normativa elettorale.
La prossima pubblicazione del testo della sentenza della Corte e delle sue motivazioni, ne chiarirà certamente gli effetti giuridici e fornirà utili indicazioni al Parlamento. Questo ha per suo conto già deciso di far ripartire dalla Camera un più risoluto e spedito esame delle diverse opzioni possibili per dare al paese una legge che, insieme alle riforme costituzionali di cui ho parlato, soddisfi, con corretti meccanismi maggioritari, esigenze di governabilità proprie di una democrazia governante, di una democrazia dell’alternanza.
Spetterà comunque alla Corte stessa illustrare il significato della decisione del 4 dicembre e la portata delle sue conseguenze, che certo non possono – come autorevoli giuristi hanno già rilevato – contraddire “il principio di continuità dello Stato” fino a farci “cadere nell’anomia e nel caos”.
In effetti, il clima politico è stato reso febbrile da quelli che, iniziando il mio intervento, ho definito mutamenti incalzanti nel panorama partitico e parlamentare; nascita e talvolta crisi di nuove formazioni; scomposizioni, e ricomposizioni su diverse basi, di partiti di più rilevante radicamento. Insomma, strappi e novità, e diversi, molteplici elementi di frammentazione e di conflittualità. Non posso che esserne soltanto imparziale osservatore.
Non ignoro tuttavia l’effetto traumatico che ha avuto sul quadro politico la sentenza di condanna definitiva pronunciata dalla Cassazione nei confronti di Silvio Berlusconi, per il ruolo di primo piano che egli ha svolto per un periodo notevolmente lungo nella vita politica e istituzionale del paese. E alla sentenza si sono aggiunte le ricadute dell’applicazione di una legge di recente approvata dal Parlamento, peraltro a larghissima maggioranza. Casi analoghi, sul terreno dei rapporti tra politica e giustizia, si sono verificati nel passato in Italia e, in questi anni, anche in qualche altro grande paese dell’Unione Europea. Sempre e dovunque negli Stati di diritto non può che riaffermarsi il principio della divisione dei poteri e quindi del rispetto, da parte della politica, delle autonome decisioni della magistratura.
Non ritorno sulle posizioni che espressi in una formale dichiarazione a riguardo il 13 agosto scorso : opinioni e criteri di comportamento a cui mi sono poi rigorosamente attenuto. Comunque, la severità delle sanzioni inflitte, la riluttanza a prenderne atto e a compiere gesti conseguenti, può indurre l’interessato e la sua difesa a tentare la strada di possibili procedimenti di revisione previsti dall’ordinamento nazionale, o a proporre ricorsi in sede europea. Ma non autorizza a evocare immaginari colpi di Stato e oscuri disegni cui non sarebbero state estranee le nostre più alte istituzioni di garanzia. Queste estremizzazioni di ogni giudizio o reazione, non giovano a nessuno, e possono solo provocare guasti nella vita democratica.
Più in generale, l’Italia avrebbe bisogno – mi sia almeno concesso il condizionale della speranza – di più misura, serenità e consapevolezza nel fare politica. Consapevolezza e senso dell’unità nazionale, pur tra consensi e dissensi, in un mondo solcato come da anni non accadeva da tensioni, conflitti, minacce cui ancora debolmente corrispondono iniziative e sforzi di pacificazione e cooperazione. Avrò occasione di parlarne più diffusamente domani, incontrando il Corpo Diplomatico, e partecipando qualche giorno dopo alla Conferenza degli Ambasciatori d’Italia.
Particolare consapevolezza si richiede poi alla politica rispetto a un’Europa in profondo travaglio per la crisi del suo tessuto economico e sociale e per l’insufficienza delle sue istituzioni, esposta perciò a una pericolosa perdita di consenso tra i cittadini e sollecitata a ripensare le politiche condotte negli ultimi anni.
Che cosa questo significhi per l’Italia, dal punto di vista della sua capacità assertiva e propositiva in tutte le sedi decisionali e le sfere di attività dell’Unione, e come quadro di riferimento ineludibile del nostro sviluppo nazionale, lo ha ben detto il Presidente del Consiglio Letta nel suo discorso programmatico mercoledì scorso in Parlamento. Le motivazioni e gli obbiettivi europei cui egli ha ancorato la richiesta della fiducia per il suo governo – guardando alle vicine elezioni per il Parlamento europeo e al semestre di presidenza italiana dell’Unione – la perorazione europeista con cui ha concluso il suo discorso, rendono superfluo ogni ulteriore apporto da parte mia ora.
Perché è stato facile riconoscermi in quella chiarezza e continuità d’impegno per la costruzione di un’Europa unita, che ha caratterizzato non singoli governi italiani ma l’insieme delle nostre istituzioni repubblicane.
Il bisogno di maggiore misura, serenità, consapevolezza nel fare politica – senza nulla togliere alla libertà e nettezza della competizione per la guida del paese, ma anche senza smarrire il senso di una responsabilità comune – ci viene suggerito dall’obbiettiva considerazione della mole dei problemi, dello spessore dei condizionamenti e dei ritardi che abbiamo accumulato a fronte dei molteplici processi di cambiamento che ci incalzavano senza che vi corrispondessimo seriamente.
Un problema che non possiamo trascurare nemmeno per un giorno – perché si avvicina la scadenza postaci da una dura sentenza della Corte di Strasburgo – è quello delle condizioni disumane che si vivono in carceri sovraffollate e degradate. E’ il tema che ho posto nel mio messaggio del 7 ottobre, da cui Parlamento e governo già stanno traendo – e ancora trarranno, ne sono certo – impulso a decisioni che siano anche di riforma della giustizia.
“Tante sono le questioni di fronte alle quali le nostre preoccupazioni sono comuni e le risposte possono essere convergenti” – ci ha detto qui di recente, venendo in visita per la prima volta in Quirinale, Papa Francesco. E in questo modo egli ci ha offerto un concorso spirituale e morale prezioso per poter aprire la strada a un futuro di speranza. Perché è vero che “là dove cresce la speranza si moltiplicano anche le energie e l’impegno per la costruzione di un ordine sociale e civile più umano e più giusto”.
Speranza e volontà di cambiamento debbono misurarsi ora e qui con sfide e necessità scottanti. Lasciate che concluda quindi con un richiamo alla sfida, che avverto fortemente, del rispetto delle istituzioni, della fermezza dello Stato democratico, della tutela della legalità. Le insidie vengono da molte parti: vengono nel modo più brutale dalla criminalità mafiosa, dalle sue minacce ai magistrati e alla convivenza civile. Ai servitori della legge impegnati con coraggio su quel fronte, va oggi la nostra piena, limpida, concreta solidarietà.
Un anno fa, nella stessa occasione che ci vede oggi riuniti alla vigilia dell’inizio del 2014, volli accomiatarmi da voi nell’imminenza della conclusione del mandato presidenziale. Chiarissima era la mia convinta e motivata predisposizione a quella conclusione: e non c’è tentativo di spudorato rovesciamento della verità che possa oscurare quel mio atteggiamento o far dimenticare la pressante sollecitazione che venne a me rivolta da opposte forze politiche partecipi di una drammatica condizione di impotenza politica a eleggere il mio successore.
Nel ringraziare poi il Parlamento e i rappresentanti delle Regioni per la fiducia largamente accordatami, ebbi modo di indicare inequivocabilmente i limiti entro cui potevo impegnarmi a svolgere ancora il mandato di Presidente. Anche di quei limiti credo che abbiate memoria; ed io doverosamente non mancherò di rendere nota ogni mia ulteriore valutazione della sostenibilità, in termini istituzionali e personali, dell’alto e gravoso incarico affidatomi.
A voi tutti, un cordiale augurio di Buon Natale e Buon Anno.
RIFLESSIONE

Chiedo scusa se a caldo [o come i ‘ribelli’] penso che tante parole sono inopportune, in un momento in cui i fatti sono incalzanti, perché vissuti nella pelle delle persone, e segnano un grosso scollamento tra il potere, che parla parla parla, e la piazza.
La piazza?
Non si possono ignorare, né tanto meno disprezzare, coloro che scelgono la piazza per scaricare la propria rabbia. Meglio pochissime frasi per raccomandare di dar nano alla legge sulla riforma elettorale, senza entrare in merito a situazioni su cu nessuno della contemporaneità (dei fatti) può pronunziarsi in stile perentorio. Nessuno e su nessuna base. Davvero ‘ai posteri l’ardua sentenza’; o meglio, come diceva mia mamma: ‘al mondo della verità!’. 

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