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agosto 2013-08-20 - Corriere - di
Antonio Polito
IL
PRECEDENTE DEL '93
IL CAVALIERE, CRAXI E QUEL
DISCORSO DA EVITARE
LA
TENTAZIONE DI RIPETERE L'ATTACCO AI GIUDICI CHE PORTÒ ALLE MONETINE DEL RAPHAEL
Se davvero Silvio
Berlusconi pronuncerà il suo gran discorso contro i giudici al Senato, prima del voto
che potrebbe espellerlo dal Parlamento, allora l'impressionante analogia tra la
fine della Prima Repubblica e la crisi della Seconda sarà completa. E non sarà
una buona notizia per l'Italia, perché la Storia non dovrebbe mai ripetersi.
Una democrazia che vive per due volte in vent'anni il trauma di un collasso
politico per via giudiziaria è infatti certamente malata.
Fu proprio un discorso
alla Camera di Bettino Craxi a mettere una pietra tombale sull'assetto politico
del Dopoguerra. E non mi riferisco a quello più celebre del 3 luglio del 1992,
molto evocato in questi giorni, in cui il leader del Psi, ancora solo sfiorato
dalle inchieste su Tangentopoli, usò il dibattito sulla fiducia al primo
governo Amato per una formidabile chiamata di correo a tutti partiti sul
finanziamento illegale: «Se gran parte di questa materia deve essere
considerata puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un
sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'Aula che possa alzarsi
e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo». Nessuno si
alzò. Ma nessuno ebbe neanche il coraggio di riconoscere che si trattava di un
problema politico, da risolvere politicamente. Tutti sperarono che la campana
suonasse solo per Craxi. E le cose andarono diversamente.
Dieci mesi dopo, il 29
aprile del 1993, il leader socialista fu infatti costretto a ripetere quelle frasi in
un contesto ben diverso: non più per salvare il sistema ma per salvare se
stesso, per chiedere all'aula di Montecitorio di respingere le richieste di
autorizzazione a procedere della Procura di Milano contro di lui. Ed è a
quell'intervento, l'ultimo mai pronunciato da Craxi in un'aula parlamentare,
che il discorso cui starebbe lavorando Berlusconi pericolosamente si avvicina.
Fu infatti un attacco
ad alzo zero contro i pm di Milano. Una requisitoria contro gli «arresti illeciti,
facili, collettivi, spettacolari e perfino capricciosi... le detenzioni
illegali che fanno impallidire la civiltà dell'habeas corpus... le violazioni
sistematiche del segreto istruttorio... la giustizia che funziona ad orologeria
politica... il teorema... le inchieste su di me, sulle mie proprietà, sui miei
figli, sui miei amici...». È difficile che, per quanto possa essere originale,
Berlusconi riuscirà a fare di meglio: frasi e giudizi di quel discorso sono da
allora diventati il canovaccio di ogni polemica sull'«uso politico della
giustizia», per usare il titolo del libro di un altro socialista, Fabrizio
Cicchitto, cui si dice che Berlusconi si stia ispirando in queste ore. Ma è
anche impressionante che l'uomo che conquistò l'Italia sull'onda di
Tangentopoli e della crisi del debito pubblico del '92, chiamandola alla
rivolta contro i vecchi partiti incapaci e corrotti, rischi ora di uscire di
scena sconfitto sugli stessi fronti, i processi e i mercati, come se in questo
ventennio di dominio elettorale non fosse riuscito a cambiare neanche una
virgola dell'equazione politica nostrana.
Quell'ultimo discorso
di Craxi ebbe un effetto straordinario. Positivo per lui nell'Aula, dove la
sera, a sorpresa, e forse con l'aiuto segreto dei leghisti che puntavano a far
saltare tutto, la maggioranza dei deputati respinse la richiesta dei pm sotto
gli occhi di Giorgio Napolitano, allora seduto sullo scranno più alto di
Montecitorio. Ma ebbe un effetto catastrofico, per Craxi e per tutta la Prima
Repubblica, fuori dall'Aula. La sera dopo, davanti all'Hotel Raphael a Roma, ci
fu la orribile gogna delle monetine, che cambiò per sempre la cultura politica
del nostro Paese; il governo Ciampi e l'intera legislatura ne uscirono
irrimediabilmente azzoppati; Craxi fu costretto a dimettersi da segretario,
perse nel '94 l'immunità parlamentare e prima che potesse essere arrestato
fuggì ad Hammamet, da esule secondo i suoi sostenitori, da latitante secondo i
suoi persecutori.
Un discorso analogo, non foss'altro
che per scaramanzia, sembrerebbe dunque sconsigliabile oggi a Silvio
Berlusconi, anche se bisogna ammettere che le differenze, tra tante analogie,
non mancano. Craxi infatti, al momento in cui prese la parola in Aula, era già
stato condannato dal tribunale dell'opinione pubblica, che aveva individuato in
lui l'agnello sacrificale perfetto per liberarsi di una Repubblica da tempo
sprofondata nella corruzione e nell'inefficienza, rivelate all'improvviso come
all'alzarsi di un sipario dalla caduta del Muro di Berlino. Berlusconi ha
invece ancora oggi una consistente parte dell'Italia dalla sua parte, e su
quella evidentemente conta nell'ipotesi di un'ultima, forse disperata battaglia
elettorale, nella speranza che l'Italia di oggi sia disposta a mettere per
molti mesi da parte lo sforzo di ripresa economica per dedicarsi al duello
finale tra giustizia e politica.
Soprattutto, la
strategia di Berlusconi non può contemplare l'espatrio come extrema
ratio. Non glielo consente la vastità degli interessi che sarebbe costretto a
lasciarsi indietro, abbandonati a una sorte incerta: le aziende, i figli, le
case, un partito. Senza contare che, a differenza di Craxi quando varcò il
confine, Berlusconi non ha più il passaporto.
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