Editoriale di Sergio
Romano sul Corriere
DOPO LA SENTENZA in cassazione
Piaccia o no, la sentenza della Cassazione ha creato una situazione che
nessuno può ignorare. Occorre aspettare che la Corte d'appello di Milano
definisca nuovamente la durata delle pene accessorie e del periodo nel corso
del quale Silvio Berlusconi non sarà eleggibile. Ma è ormai certo, salvo
circostanze oggi imprevedibili, che il leader del Pdl trascorrerà un periodo
agli arresti domiciliari o in affidamento ai servizi sociali e non farà parte
del Parlamento. Non so se la sua carriera possa considerarsi definitivamente
conclusa. Ma un uomo duttile e realista, come Berlusconi ha dimostrato di
essere in parecchi casi, non può ignorare che la sentenza, nella parabola della
sua vita politica, è un imprescindibile spartiacque.
È ancora aperta, invece, un'altra questione più gravida di immediate
conseguenze politiche: se Berlusconi abbia il diritto di restare in Parlamento
in base alla legge Severino sulla corruzione. Quando l'applicazione della legge
a un deputato o a un senatore esige un passaggio parlamentare (prima nella
giunta delle elezioni, poi nell'Assemblea di appartenenza), il problema smette
di essere esclusivamente giuridico. Nessuno può dimenticare che la cacciata di
Berlusconi dal Senato avrebbe effetti politici. È possibile delegittimare il leader di un
partito senza che quest'ultimo resista alla tentazione di considerarsi punito,
offeso, vittima di una strategia ostile? È possibile, se il partito è membro di
una coalizione governativa, che la sua decapitazione, per mano di quelli con
cui deve governare, non si ripercuota sulla qualità e sulla durata della
convivenza? È utile per il Paese andare con gli occhi bendati verso una crisi
(possibile se non addirittura probabile) nel momento il cui il maggiore
interesse nazionale è la stabilità?
È difficile immaginare che i membri della giunta non siano consapevoli
dell'esistenza di questi e altri interrogativi. Si potrebbe osservare che vi
sono questioni di pubblica moralità in cui un parlamentare ha il diritto e il
dovere di votare secondo coscienza. È vero. Ma la coscienza dei membri della
giunta sarebbe ancora più tranquilla se si dimostrassero consapevoli di questi
rischi e dessero spazio, prima di pronunciarsi, all'esame di certi dubbi sulla
applicabilità delle legge Severino che sono stati sollevati anche da giuristi non conosciuti per le
loro simpatie berlusconiane. Se accettassero questa riflessione
dimostrerebbero, oltre a tutto, che anche la politica ha diritto alla sua
autonomia e che non vi è equilibrio fra i poteri dello Stato là dove uno
trasferisce automaticamente le decisioni dell'altro nell'area di propria
competenza.
Questo delicato passaggio diverrebbe meno difficile se Berlusconi, dal
canto suo, si rendesse conto delle proprie responsabilità. Ha fondato un
partito che continua ad avere i consensi di una parte del Paese e ha creato
così le condizioni per una democrazia dell'alternanza. Spetta a lui evitare,
con un passo indietro, che questo partito dipenda interamente dalla sua
leadership. Spetta a lui assicurare la transizione e lasciare dietro di sé un
personale politico capace di raccogliere quella parte della sua eredità che è
ancora utile al Paese. È questo il lavoro «socialmente utile» che potrebbe dare
un senso al crepuscolo della sua avventura politica.
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