giovedì 22 dicembre 2016

da NOI DONNE


FDEI / “16 Giorni per vincere la violenza contro le donne”

Raccolte circa 5.000 firme per la campagna contro la violenza di genere della Federazione Donne Evangeliche in Italia

inserito da Tiziana Bartolini

Roma, 15 dicembre 2016. Le donne si impegnano a non subire passivamente le violenze, a diffondere la cultura della legalità, del diritto e della solidarietà, a lavorare sulla piena consapevolezza della dignità femminile. Gli uomini si impegnano a non esercitare o tollerare la violenza contro le donne, a diffondere una cultura basata sulla parità di genere e ad operare affinché sia rispettata la dignità femminile.

È il contenuto della petizione lanciata dalla FIDEI (Federazione Donne Evangeliche in Italia) nel quadro della campagna “16 Giorni per vincere la violenza contro le donne”, che ha adottato una originale collana rossa quale simbolico intreccio dell’assunzione di responsabilità da parte dei vari attori sociali che agiscono quando si parla di violenza di genere.

“Sono circa 5.000 gli uomini e le donne che sinora hanno sottoscritto l’appello - ha spiegato Dora Bognandi (presidente della FDEI) durante la conferenza stampa tenutasi ieri a Montecitorio -, un testo che, accanto all’impegno assunto da ciascun/a firmatario/a, rivolge richieste precise al Dipartimento delle Pari Opportunità e al governo in relazione ai Centri antiviolenza e ad alcuni specifici servizi”.

L’appello ha in sostanza due focus: garantire il funzionamento dei centri antiviolenza esistenti e aumentarli di numero, organizzare sul territorio servizi e interventi di carattere sociale e culturale. Infatti se da un lato si chiede alle autorità competenti di superare “tutti gli ostacoli di ordine burocratico per far arrivare ai centri antiviolenza esistenti i fondi ad essi destinati” e di incentivare la nascita di nuove strutture in tutte le Regioni, dall’altro si sottolinea la necessità di “facilitare il reinserimento socio-lavorativo delle vittime” e di attivare iniziative di prevenzione “che abbiano come target specifico gli uomini”.

La voce degli uomini è stata affidata a Massimiliano Pani (coordinatore del “Gruppo di lavoro sulla violenza di genere” della Chiesa battista), che ha sottolineato la necessità di un percorso di riflessione al maschile “perché è sulle radici della cultura maschilista che occorre lavorare per liberarci di cliché che ci vogliono prigionieri di stereotipi predefiniti di un certo modo di essere uomini e donne”. Un percorso che è in atto poiché, ha spiegato Pani, “abbiamo preso coscienza che come uomini dobbiamo agire nella dimensione culturale. La buona notizia è che non siamo all’anno zero e che qualcosa comincia a muoversi”. Della stessa opinione l’on Luigi Lacquaniti (Pd), che introducendo i lavoro ha parlato di “educazione all’affettività per vincere sulla cultura patriarcale”.

La campagna è iniziata il 26 novembre e la presentazione delle firme ha segnato la prima fase “di un percorso che è solo all’inizio” ha detto Mirella Manocchio (presidente della Chiesa metodista in Italia. All’interno della campagna si inscrivono molte iniziative che si muovono nello stesso solco, come l’esperienza della ‘Finestra rosa’, realizzata grazie ai contributi dell’8x1000 della Tavola Valdese. “Accoglienza, ascolto e accompagnamento: sono i pilastri del servizio a sostegno delle vittime di violenza che si rivolgono al nostro punto di ascolto - ha spiegato Barbara Oliveri Caviglia, presidente dell’Ospedale Evangelico Internazionale di Genova - dove due psicologhe sono a disposizione delle donne che intendono affrontare il percorso di uscita dall’incubo della violenza”. Estelle Blake, in qualità di coordinatrice “Antitraffico Umano” dell’Esercito della Salvezza”, ha portato, in questo senso, un’esperienza consolidata nel tempo.

“Il tratto peculiare di questa iniziativa è la trasversalità tra varie realtà e vari soggetti: tra Chiese e confessioni religiose, tra attori sociali e tra donne, oltre che tra donne e uomini” ha sottolineatola giornalista Gianna Urizio la quale, coordinando i lavori, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di riflettere in modo più approfondito sul tema del potere che permea tutte le relazioni umane, nella coppia così come nella politica o nel lavoro.

Del resto uno degli obiettivi della FDEI, organismo nato nel 1976, è operare per la dignità della donna superando le disparità che ancora esistono tra i due sessi. La petizione, ancora in corso, e la campagna rappresentano un fattivo e rinnovato contributo all’impegno della Federazione.

domenica 4 dicembre 2016

Comunicazione


Comunico quanto mi comunica Carmelo Musumeci:
è uscito un fumetto con la narrazione illustrata dei miei 26 anni di carcere passati dentro l’Assassino dei Sogni.

Il fumetto si può ordinare anche a questo indirizzo e-mail zannablumusumeci@libero.it

Grazie, Ausilia

martedì 29 novembre 2016


 

Un uomo ombra semilibero

“ (…) concede a Carmelo Musumeci il beneficio della semilibertà consentendogli di prestare un’attività di volontariato presso una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, al servizio di persone gravate da handicap.” (Tribunale di Sorveglianza)

 

     Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita. Penso che più di credere a me stesso ho scelto di credere negli altri. E forse questa è stata la mia salvezza. Mi hanno notificato l’esito positivo della Camera di Consiglio sull’istanza della semilibertà. Uscirò dal carcere al mattino e rientrerò alla sera per svolgere, durante il giorno, un’attività di volontariato presso la Comunità Papa Giovanni XXIII.

Quando arrivo in cella con l’Ordinanza del Tribunale di Sorveglianza tra le mani mi gira la testa. Il mio cuore batte forte. Respiro a bocca aperta. Lontano da occhi indiscreti, appoggio la testa contro il muro e mi assale una triste felicità. In pochi istanti rivivo questi venticinque anni di carcere con i periodi d’isolamento, i trasferimenti punitivi, i ricoveri all’ospedale per i prolungati scioperi della fame, le celle di punizione senza libri né carta né penna per scrivere, né radio, né tv, ecc. In quei periodi non avevo niente. Passavo le giornate solo guardando il muro.

Poi ad un tratto scrollo la testa. Smetto di pensare al passato. Mi faccio il caffè. Mi accendo una sigaretta. E, dopo la prima tirata, medito che adesso dovrei smettere di fumare perché ora la mia unica via di fuga per acquistare la libertà non è più solo la morte. Alzo lo sguardo. Guardo tra le sbarre della finestra. Osservo il muro di cinta. Per un quarto di secolo ho sempre creduto che sarei morto nella cella di un carcere. Penso che una condanna cattiva e crudele come la pena dell’ergastolo, che Papa Francesco chiama “pena di morte mascherata”, difficilmente può far riflettere sul male che uno ha fatto fuori. Io credo di essere rimasto vivo solo per l’amore che davo e che ricevevo dai miei figli e dalla mia compagna.

Sono stati anni difficili perché non avevo scelto solo di sopravvivere, ma ho lottato anche per vivere. Proprio per questo ho sofferto così tanto. Non ho mai pensato realmente di farcela e forse, proprio per questo, ce  l’ho fatta.

Adesso mi sembra tanto strano vedere un po’ di felicità nel mio futuro.

Mi commuovo di nuovo. E il mio cuore mi sussurra: “Per tanti anni hai pensato che l’unica cosa che ti restava da fare era aspettare l’anno 9.999;  invece ce l’hai fatta! Sono felice per te … e anche per me”.

Quello che rimpiango maggiormente di questi 25 anni di carcere è che non ho ricordi dell’infanzia dei miei figli. Mi consolo pensando che adesso mi rifarò con i miei nipotini. Poi penso che senza l’aiuto di tante persone del mondo libero che mi hanno dato voce e luce, non ce l’avrei mai fatta.


 

 

 

Carmelo Musumeci

Novembre 2016

sabato 19 novembre 2016

I media e ipreti sposati


Preti sposati: conciliabile il ministero sacerdotale con adempimenti matrimoniali. I media rilanciano il tema, spazi su Rai Uno e Canale 5 Nella Bibbia le lettere di Paolo fanno riferimento ai preti sposati specialmente 1Tm 3,2ss e Tt 1,6 ss.

Roma, 11/11/2016 - 08:55 (informazione.it - comunicati stampa - varie) Viene recepita nella tradizione l’analogia posta da tali lettere tra governo della casa e governo della Chiesa. Una buona capacità coniugale e parentale è un buon indizio della capacità di governare la famiglia ecclesiale. In qualche modo la logica delle lettere pastorali sembra indicare che i preti sposati mostrano il carattere familiare della comunità ecclesiale. Al punto che un criterio di discernimento in ordine alla capacità di governo del candidato al presbiterato è proprio la sua capacità di essere un buon marito e un buon padre.

Anche i preti cattolici hanno avuto la possibilità di avere moglie, ma solo se di provenienza anglicana. Possono tenere famiglia e dei figli. È quanto affermò nel 2009 la speciale Costituzione Apostolica varata da Papa Ratzinger.

Il Movimento internazionale dei sacerdoti lavoratori sposati non accetta la regola che proibisce ai preti sposati cattolici romani quello che ha concesso e concede ai nuovi entrati sacerdoti anglicani. Una disuguaglianza difficilmente sanabile, trattandosi per loro non di una sottigliezza squisitamente teologica ma di un problema, come si dice, di carne e d’ossa.

II celibato non è un dogma. E mai nella storia ne è stata rivendicata l'origine divina. Nella Chiesa occidentale si è affermato più per ragioni pastorali o di opportunità, che per ragioni teologiche e dottrinali. In certi periodi storici, infatti, era meglio non aver a che fare con i figli dei preti, per evitare che reclamassero diritti ereditari sui beni ecclesiali. La Chiesa, quindi, potrebbe un giorno decidere diversamente da quanto avviene oggi. Non l'ha fatto finora, sebbene se ne sia dibattuto, a lungo, in più occasioni. Ma il discorso non è affatto chiuso. Anzi, esigenze pratiche come il calo numerico dei preti in Europa e in altre parti del mondo, potrebbero riaprire la riflessione, in vista della riammissione nelle parrocchie dei preti sposati che hanno un regolare percorso canonico di dimissioni, dispensa dagli obblighi del celibato e matrimonio religioso.

La puntata di #PomeriggioCinque su Canale5 del 7 Novembre 2016 (visibile online http://www.video.mediaset.it/video/pomeriggio_5/full/lunedi-7-novembre_661866.html) ha affrontato anche il tema dei preti sposati: don Giuseppe Serrone e Albana Ruci invitati in trasmissione hanno perso la pazienza subito dopo la ricostruzione artificiosa della loro storia, ricostruzione che ha indirettamente suggerito una storia tra la coppia precedente alle dimissioni dal ministero pastorale.

Albana ha alzato la voce in difesa delle donne. Il titolo che passava in al momento dell'inizio dell'intervista era errato rispetto al fatto dell'innamoramento di don Giuseppe. "Non siamo stati mai amanti prima delle mie dimissioni. Nel 2002 questa storia era stata già chiarita e ora a distanza di 14 anni siamo stati nuovamente in parte diffamati".

Albana e Giuseppe sono impegnati da anni per i diritti civili e religiosi delle donne e delle famiglie dei sacerdoti sposati e si battono per la riammissione al ministero dei preti sposati.

Nella puntata la D'urso aveva affermato che Albana e Giuseppe avevano vissuto insieme da soli in canonica prima delle sue dimissioni, suscitando la rabbiosa e giusta reazione di Albana che in passato era stata oggetto di un triste episodio di discriminazione quando alcune persone (un adulto e dei minorenni) le avevano lanciato contro delle pietre mentre si trovava a Chia (Frazione di Soriano nel Cimino in provincia di Viterbo).

Il 5 Novembre 2016 don Giuseppe e Albana erano stati protagonisti in studio a Rai Uno ospiti di #ParliamoneSabato con Paola Perego, che invece aveva ricostruito correttamente la storia delle dimissioni e del matrimonio di don Giuseppe (ecco il link alla trasmissione http://www.raiplay.it/video/2016/10/Parliamone-Sabato-1596014b-91b7-4f87-877f-98c3edf90c43.html).

 

Recentemente anche il TG4 (puntata del 13 Settembre 2016) aveva raccontato la storia (visibile da qui https://www.youtube.com/watch?v=lRetKR4UjSw).
Nel 2003 "La vita in Diretta aveva affrontato il tema della storia di don Giuseppe e Albana che avevano fatto una scelta trasparente e coerente: "Non avendo avuto una doppia vita come prete dopo le dimissioni - ha affermato don Giuseppe - , ho intrapreso un percorso che mi ha portato alla dispensa dagli obblighi del celibato e al matrimonio religioso. Con un percorso regolare previsto dal codice di diritto canonico siamo ancora dentro la Chiesa - ha concluso don Giuseppe - . Aspettiamo il cambio della legge ecclesiale che consenta la riammissione al ministero dei preti sposati che hanno un regolare percorso. La nostra questione, cioè la riammissione dei preti sposati, è un'altra questione rispetto al celibato dei preti e al matrimonio dei preti. Il celibato è un valore per chi lo sceglie e lo vive coerentemente".

venerdì 11 novembre 2016

Il Vangelo secondo Leonard Cohen


B. Salvarani Il Vangelo secondo Leonard Cohen

 
La musica pop, non è una novità, ha visto una gran quantità di autori cimentarsi con il tema del rapporto con la religione: campo alquanto difficile e insidioso, dove le trappole della banalità e del cattivo gusto sono sempre in agguato e non è sempre detto che l’immediatezza della comunicazione – qualità importante per una canzone – riesca a coniugarsi con la complessità dell’argomento.
 
  1. Ci sono alcuni artisti, però, che hanno saputo scavalcare brillantemente gli ostacoli trattando con un mezzo apparentemente facile e popolare come la canzone le tematiche proposte dai testi sacri; ce ne sono altri, in misura minore, che ne hanno felicemente fatto un fondamento della loro poetica in musica, arrivando al cuore del proprio pubblico. Tra questi c’é sicuramente Leonard Cohen, scomparso in questi giorni a ottantadue anni, a mio avviso il più significativo per esiti artistici e popolarità planetaria sotto questo profilo, la cui autodefinizione presente in The future (1992) – “Io sono il piccolo ebreo che ha scritto la Bibbia” – non è per niente esagerata o fuori posto. Si badi: i suoi testi sono generati dalla Bibbia, più che ispirati a essa, ma il testo sacro alla tradizione ebraica e cristiana non è scelto in conseguenza di una presa di posizione fideistica. La Scrittura è una presenza immanente alla poetica coheniana, esattamente come il Grande Codice è la pagina sorgiva dell’intera cultura occidentale.
 
“Mi piace la compagnia dei monaci e delle suore e dei credenti ed estremisti di ogni genere – ha detto lui una volta – e mi sono sempre sentito a casa tra le persone di quella fascia. Io non so esattamente perché, so che rende solo le cose più interessanti…”. Ne Il vangelo secondo Leonard Cohen (Claudiana 2010), da parte nostra, mia e del compagno di scorribande musicalteologiche Odo Semellini, abbiamo cercato di analizzare la dimensione del sacro nell’opera dell’allora settantasettenne artista canadese, prendendone in esame, oltre al canzoniere, anche le raccolte di poesie, i romanzi e le interviste rilasciate nel corso degli anni. Siamo infatti convinti che il poeta di Montréal ha saputo fare del suo percorso spirituale e religioso un argomento degno di essere cantato, raccontato senza mai scadere nell’autocelebrazione, sapendolo arricchire anche della complessità del rapporto non solo tra l’uomo e Dio, ma anche tra l’uomo e la donna, cogliendo perfettamente le contraddizioni di tale rapporto, che scandisce quotidianamente l’esistenza di ognuno di noi. Al tempo stesso, come scrive Alberto Corsani su Riforma del 21 maggio 2010, i riferimenti biblici nelle canzoni di Cohen “fanno parte dell’humus in cui il cantautore è cresciuto, costituiscono il suo retroterra, senza esaurirlo e senza impedire che le sue canzoni vengano interpretate a prescindere dalla fede… Cohen ci porta alla soglia di un paesaggio sconfinato, che forse avremo il privilegio di scoprire; ben sapendo che perfino a Mosè fu negato di vedere compiutamente la Terra promessa”. Di questa peculiarità si era ben accorto il nostro Fabrizio De André, che non a caso tradurrà quattro brani di Cohen (tra cui la famosa Suzanne), e cui abbiamo dedicato un capitolo, in cui sono messe a confronto le tematiche etiche e religiose del cantautore genovese e del collega d’oltreoceano. Nel libro abbiamo voluto inserire un altro faccia a faccia illustre tra Cohen e Bob Dylan, per certi versi il suo corrispettivo statunitense. Ma anche la sua vicenda buddhista: nel 1993, dopo la promozione mondiale del suo album The future, egli decideva di ritirarsi al Mount Baldy Center, un monastero zen sorto nel 1971 e situato a duemila metri di altezza, e di sostarvi per oltre sei anni con il nome di Jikan, il silenzioso. Pur conservando il suo essere ebreo di fondo, si badi, quella che chiama la religione di famiglia… Il Nostro non è stato certo un autore prolifico – appena quattordici album in studio in un quarantennio di carriera, compreso l’appena uscito You want it darker – ma ha saputo suscitare l’ammirazione di diversi suoi colleghi (Bono degli U2 e Jeff Buckley, tanto per fare solo un paio di esempi notevoli) che lo hanno omaggiato con un numero pressoché sterminato di cover. Su tutte, la celeberrima Hallelujah, titolo che allude alla preghiera di lode a Dio nella liturgia ebraica, che ha fatto scorrere i proverbiali fiumi d’inchiostro e registrato una serie pressoché infinita di reinterpretazioni. Cohen è riuscito a raccontare come pochi il suo tempo cercando, come ha sottolineato Gianfranco Ravasi su Il Sole 24 ore del 1° settembre 2010, “di intrecciare nel suo pensare, scrivere e cantare, spirito e corpo, mito e storia, mistica e amore, sacro e profano, ma soprattutto Dio e uomo, avendo sempre accesa nel suo cielo la stella della Bibbia”. E, aggiungo, raccontando le inquietudini umane alla luce di una fede che, proprio perché finita e imperfetta, ha saputo affascinare generazioni di fedeli ascoltatori. Perché le domande sull’esistenza sono le stesse per tutti, e le risposte che ha provato a dare quello che mi piace definire il canadese errante, così pregne di armonia e bellezza, possono servire, anche solo in parte, a noi tutti. Perché, come dice lui, “ogni canzone che ti consente di dare via te stesso è una buona preghiera”.

mercoledì 2 novembre 2016

E' morta Tina Anselmi

Grazie, partigiana Gabriella e Madre della Repubblica

È morta la notte scorsa Tina Anselmi, prima donna ministra della Repubblica. Il ricordo di Livia Turco

inserito da Tiziana Bartolini


È morta la scorsa notte all’età di 89 anni e rimarrà nella storia della nostra Repubblica come una figura limpida di donna che ha interpretato l’impegno politico a favore delle donne e per la libertà.
Tina Anselmi - nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo del 1927 - è stata la prima donna nominata Ministra in Italia: nel 1976 nel governo Andreotti ha guidato il Dicastero del lavoro e della previdenza sociale e tra il ‘78 e il ’79 quello della Sanità. Sua la firma della legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro per accesso, carriera, retribuzione (L. 903/1977); il suo nome è legato anche alla riforma che introdusse il Servizio Sanitario Nazionale (L.833/1978). Nel 1981, è stata nominata presidente della Commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2, che ha terminato i lavori nel 1985. (biografia)
“Nel 1987 ero una giovane che entrava per la prima volta in Parlamento insieme a tante altre donne del Partito Comunista: avevamo vinto la battaglia che con la Carta delle Donne puntava ad ottenere il 30% della presenza femminile. Eravamo tante, giovani: l’emiciclo per metà era colorato e per metà grigio. Ho il ricordo Tina Anselmi che, venendomi incontro con un sorriso accogliente, mi disse ‘ma come avete fatto ad essere così tante, come siete state brave, adesso le cose cambieranno siete così tante e giovani..’. Ed effettivamente nacque un confronto con le donne della D.c.”. A parlare è Livia Turco, che ci ha consegnato un ricordo di Tina Anselmi anche sul piano umano. “Quando era Ministra io ero una giovane militante del P.c.i. e l’ho conosciuta personalmente nella sua ultima fase politica. Teneva molto al dialogo e, anche se erano avversarie politiche, aveva un rispetto profondo per le donne comuniste: per Adriana Seroni, per Giglia Tedesco. La stima con Nilde Iotti era reciproca, infatti quest’ultima la volle presidente della Commissione P2. La ricordo poi negli ultimi anni, non era più parlamentare ma veniva a Montecitorio per tenersi informata; sempre con quel sorriso coinvolgente, quella amabilità e un’attenzione autentica: parlando ti guardava dritta negli occhi. Tina Anselmi è stata una grande madre della nostra Repubblica, a partire dal suo impegno nella Resistenza…. la partigiana Gabriella… Nel suo libro scritto con Anna Vinci racconta come decise di diventare partigiana dopo che i nazifascisti obbligarono gli studenti e le studentesse del suo istituto magistrale ad assistere all’impiccagione di 43 giovani. La sera stessa parlò con il parroco del trauma che aveva vissuto e decise di diventare partigiana, ispirandosi al profeta Gabriele da cui prese il nome. In quel libro scrive ‘non sarei stata una partigiana qualunque, se ci fosse stata la necessità di imbracciare il fucile lo avrei fatto’. Ecco, fin da giovane lei seppe scegliere la parte con cui schierarsi”. E non doveva essere facile per una giovane degli anni Quaranta, cresciuta con una mentalità cattolica, prendere una posizione così netta e rischiosa. “Sì, è importante sottolineare questo aspetto. Furono tante le giovani che non ebbero dubbi anche se non era facile maturare una posizione contro un fascismo che era pervasivo, ma tutto fu chiaro quando si comprese che c’era in ballo la negazione della libertà. Lei capì da subito che le donne dovevano essere al centro e, da cattolica, lottò per il diritto di voto alle donne”. Uno sguardo proteso verso il futuro, il suo. “È stata una donna speciale: non possiamo dimenticare la posizione di arretratezza delle donne in quegli anni, l’Italia era un paese arretrato economicamente e anche le leggi rispecchiavano una cultura patriarcale. Decidere di esserci in prima persona per dire alle donne che la loro vita doveva cambiare era una scelta forte. Lei maturò la consapevolezza che le donne per essere madri di famiglia non dovevano rinunciare alla loro libertà nell’ambito del mondo cattolico e facendo riferimento a Jacques Maritain, non è un caso se la sua scelta di diventare partigiana passa attraverso il parroco del suo paese.. sono elementi che testimoniano il suo costante riferimento alla parte del mondo cattolico che si è fatto interprete dei fermenti di innovazione presenti nella società”.
I funerali saranno celebrati venerdì 4 novembre nel Duomo di Castelfranco Veneto.

Ognissanti e commemorazione dei defunti












Ognissanti e commemorazione dei defunti: una scossa alla fede
Cristiana Dobner
31 ottobre 2016
Agenzia Sir


[[in fondo la mia nota personale]]

Quel Sepolcro, che denominano Santo, nel mistero di fede è compresente ad ogni tomba, ad ogni cimitero e l’energia del Risorto circola su quello che sembra uno scenario immobile, tagliato fuori ed espulso dal contesto di vita, effondendo una luce che non solo illumina ma anche riscalda i cuori


Una scossa alla nostra fede si ripropone ogni anno al varco dei mesi di ottobre e novembre: Tutti i Santi e i Defunti.

La fede è messa alla prova perché la rimozione della morte è naturale e corre sul filo del fluire della nostra vita quotidiana. Progettiamo, pianifichiamo e speriamo di raccogliere esiti e frutti.

Del tutto normale, siamo disposti a dirci. Tuttavia facciamo il conto senza l’oste.

Non è quella spada di Damocle che può piombarci addosso all’improvviso e tagliarci fuori dal tempo e dalla storia.

Non è neppure il filo tessuto dalle Parche: l’ultima attende le giunga fra le mani per darvi un bel taglio e precipitarci nel nulla.

Fosse così o solo così la rimozione avrebbe il sapore della correttezza e bisognerebbe coltivarla. Rimbalzerebbe però un altro quesito: perché mettere al mondo dei figli? Per inserirli in un meccanismo distruttivo che logora i giorni e toglie il fiato?

 

La fede, cioè l’Amen che la persona pronuncia quando prega o riceve i sacramenti, dona un’altra prospettiva che non scansa, evita o seppellisce i problemi e le difficoltà ma conferisce loro una capacità creativa che avvolge tutto e lascia promanare la pace.

 

Il Misericorde ha fatto irruzione nella storia, si è donato completamente, ci ha creati perché rendessimo ancora più bella la sua creazione, perché stringessimo fra di noi legami di fraternità. Perché fossimo certi di camminare da pellegrini, diretti al Suo Volto.

Quando entriamo in un cimitero non dovremmo guardare alle lastre tombali come ad un coperchio ormai chiuso e sigillato su di un’esistenza, di cui, peraltro, ben presto si dimenticano gli eventi, i successi e gli insuccessi.

 

Lastre ed epigrafi dovrebbero riportare alla nostra memoria e alla memoria della fede un dato che si dovrebbe palpare nell’aria: chi ha chiuso gli occhi alla storia, li ha chiusi aprendoli sul quel mistero che siamo stati chiamati a conoscere in vita.

 

Dire Amore non è uno spreco di parole ormai sporcate da vicende dai toni turpi e oscuri. Dire Amore significa che ogni tomba sprigiona una forza, un’energia che ci investe e ci richiama a valori perenni, a opzioni che lasciano un segno invisibile nella storia dei potenti e dei magnati che sembrano gestire tutta l’esistenza.

Segno che la fede sa cogliere, sa fare proprio e rendere vitale.

Amore significa gratuità, servizio, disinteresse. Significa riconoscersi fratelli, tutti insieme animati dal desiderio del bene comune.

 

Camminare fra le tombe può suscitare un sentire nostalgico per i volti di chi nella nostra storia ci ha generato, accompagnato stando al fianco con tutto l’amore che ha potuto donare.

Può però suscitare un sentimento più profondo e liberante: riallacciare un legame che trapassa, che non mente, che non si esaurisce perché affonda in Dio stesso.

Ormai immersi nel grembo del Padre chi ci ha lasciato è diventato potente canale di grazia, di amicizia vera.

 

La tomba quindi non può essere luttuosa, terrificante.

Ad ogni tomba è sottesa quella tomba che ha racchiuso il Corpo del Salvatore che ci ha promesso vita eterna.

 

Quel Sepolcro, che denominano Santo, nel mistero di fede è compresente ad ogni tomba, ad ogni cimitero e l’energia del Risorto circola su quello che sembra uno scenario immobile, tagliato fuori ed espulso dal contesto di vita, effondendo una luce che non solo illumina ma anche riscalda i cuori. Parla di quella dimensione che sappiamo ormai essere dei santi che lodano Dio perennemente, in una gioia reciproca resa trasparente, senza quelle opacità che hanno caratterizzato la vita e i legami terreni.

Non è una proiezione magica o scaramantica per richiama antichi riti ancestrali, è ben di più.


È la scelta di fondo su cui poggia ogni nostra successiva scelta finché muoviamo, passo dopo passo, su quel sentiero che ci conduce in vetta: al Volto di Dio, Creatore e Padre, al Figlio che, con la sua morte, ha dato un senso al nostro lasciare la terra per consegnare in assoluta fiducia il nostro respiro e transitare all’eterna Luce.



 
NOTA PERSONALE
E’ bella questa convinzione della Dobner, derivata dalla fede, che la morte sia un passaggio verso la Luce che non si spegnerà mai.
Ma io ho altre parole perché la fede è il mio sostegno nell’oggi. Il domani connesso con l’eternità non entra nelle mie categorie mentali impastate di tempo.
La morte è, mi impegno che sia, un compimento nell’oggi in cui scavo momento per momento. Nessuno sa che cosa sia l’eternità.
La mia fede quel giorno della fine del tempo sarà una consegna, una supremo affidamento in seno al Creatore.
Un’immagine traduce il mio atteggiamento nei riguardi della morte: quella del bimbo abbracciato alla mamma e sorride….
Un’immagine che riproduce ciò che la nostra ragione non sa spiegare.
In quel sorriso annegano ansie, paure, noia, stanchezza, dolori…. tutto tutto tutto.
Posso augurarvi di condividere i miei sentimenti?
Ausilia
 


venerdì 28 ottobre 2016

"Opportunanda"



Opportunanda! i problemi che ci toccano il cuore!
Ricevo e comunico, (mentre il terremoto fa la sua parte...) Ausilia


FATTI E PAROLE 16 ASSOCIAZIONE OPPORTUNANDA
NEWS
DORMIREDUE PAROLE
“Dormire” è uno dei principali bisogni della persona umana, così come lo è il mangiare, il nutrirsi. Nel sonno la persona si rigenera, riposa dopo una fatica, supera malattie, entra in uno stato di rilassatezza durante il quale dimentica, sogna, ricupera forze fisiche e psicologiche. Ma come, quando, dove si dorme? La risposta più semplice è: nel letto, o almeno su una poltrona, o a volte in viaggio in macchina, in treno, o sdraiati su un prato o su una spiaggia…
Questo piccolo preambolo accenna al dormire della maggior parte di noi che viviamo in una casa, con una famiglia, con una normale vita di lavoro. Ma questo è il Notiziario di Opportunanda, l’associazione dei Senza-Dimora e il problema del dormire è molto, molto diverso!
Tralasciamo l’antica idea del “clochard” che sceglie di vivere sotto i ponti. Qualcuno che fa questo tipo di scelta effettivamente esiste, ma la maggior parte dei senza dimora non “sceglie”, ma subisce, perché la vita l’ha portato contro la sua volontà ad una situazione molto difficile. Quasi sempre si trova sulla strada chi ha perso il lavoro, la famiglia, la casa ed è alla ricerca di tutto, vive nel buio di un futuro con ben poche speranze.
“Sulla strada”, appunto! E come risolve il problema del dormire? Nelle nostre città ci sono i dormitori, ma in un’altra parte del Notiziario spiegheremo meglio la difficile trafila per accedervi, quasi sempre per brevi periodi.
Altre possibilità? Ci sono, certo, ma si tratta di accoglienze temporanee, eccezionali, del tutto personali.
Spiegheremo che cosa sono le “convivenze” che ha inventato Opportunanda, ma soprattutto – come facciamo ogni volta – daremo la parola ai diretti interessati, li faremo raccontare…
L.
I dormitori
Possono accedere ai dormitori persone maggiorenni dell’Unione Europea, effettivamente senza dimora e prive di reddito. L’accesso è gratuito dalle 20 alle 8 e nel periodo invernale dalle 19 alle 9. Occorre iscriversi a una lista d’attesa tramite il dormitorio di via Sacchi 47. Poiché ci sono anche dormitori privati, il criterio d’accesso varia da uno all’altro.
I dormitori “pubblici” funzionanti tutto l’anno sono sei, ma nel tempo dell’emergenza freddo vengono create parecchie altre strutture. I dormitori privati sono sette od otto.
L’accoglienza nei dormitori pubblici dura 30 giorni per i residenti in Torino e 7 giorni per i non residenti.
Al termine di questi periodi, occorre nuovamente iscriversi e si torna in lista d’attesa.
Le convivenze guidate.
Nell’ottobre/novembre 1997, con l’inizio dell’emergenza freddo, il Comune di Torino richiede agli organismi di volontariato di collaborare per trovare dei posti letto per i senza dimora. A Opportunanda ci si dice: “Proviamoci anche noi, creiamo una casa che rimanga per il futuro e che possa diventare una convivenza, una realtà che aiuti ad acquisire una dimensione abitativa, una sorta di rieducazione ad una casa autonoma”. E a poco a poco si sono create le convivenze che attualmente sono tre maschili e una femminile.

Abbiamo chiesto a X. di “raccontarci” il suo dormire sia in strada che in dormitorio…
Quando l’azienda dove lavoravo ha chiuso e sono rimasto senza stipendio, sono stato messo fuori casa, con cambio serrature e mi sono trovato solo, travolto dalla tossicodipendenza.
Cercavo una macchina aperta e dormivo lì al caldo, oppure un portone aperto, salivo fino all’ultimo piano e dormivo sul pianerottolo. Lunghi anni…, ma intanto sono stato accolto da tre comunità terapeutiche e sono uscito dalla tossicodipendenza.
L’esperienza dei dormitori – dove ho dormito per anni – è stata complessa, ma l’ho sfruttata in positivo.
In alcuni dormitori si fraternizza, si può preparare qualcosa insieme da mangiare, si fa comunione con altri che hanno gli stessi problemi, nel comune dolore si mettono insieme le forze… Ma non dappertutto è così: nei dormitori circola alcool, droga, infiniti problemi che creano varie tensioni. Esperienza durissima che però sono riuscito a vivere in positivo, dicendomi: devo aver fiducia e credere. Poi ho chiesto aiuto al SERT che mi ha dato una grossa mano. Sono stato per un anno in una struttura con appuntamenti, colloqui e due periodi nelle pensioni “Un tetto per tutti” e “Tempo supplementare”, seguito da un’assistente sociale. Tramite lei ho conosciuto Opportunanda che mi ha inserito nella convivenza di via La Salle. Nuovo rischio nella zona di Porta Palazzo, dove lo spaccio di droga è diffusissimo.
Ora ho finalmente un alloggio in casa popolare, un nido per me.”
Dopo un po’ di titubanza, X. ha aggiunto: “Ma io ho un’altra esperienza di dormire: sono stato alcuni anni in carcere.
Erano celle da due posti letto, poi sono passato nella comunità Arcobaleno, dopo un duro impegnativo lavoro e si dormiva in camere da quattro letti. Tutto mi ha rinforzato: <stare male per stare bene> “
Ci siamo salutati con X. canticchiando la canzone di Jovanotti: “Io penso positivo, perché son vivo, perché son vivo”…
Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Y chiedendo anche a lui di “raccontare” il suo dormire e Y ci ha parlato di tante cose della sua vita.
“Avevamo tentato di avviare un lavoro con mio fratello in Sardegna, ma l’esperienza non è andata bene e siamo rientrati a Torino con un nostro furgone e per un po’ di tempo siamo vissuti in una mansarda. Abbiamo dovuto lasciare anche quella e ci è rimasto il furgone parcheggiato abusivamente. Dormivo nel furgone, travolto dalla tossicodipendenza e quindi dalla necessità di trovare i soldi. Rubavo le auto e le rivendevo a dei ricettatori di Porta Palazzo.
A un certo punto i vigili mi hanno sequestrato il furgone e allora dormivamo in due o tre sui treni o sul pianerottolo dell’ultimo piano di palazzi aperti, fuggendone al più presto al mattino.
Grazie a dei passaparola ho scoperto i due dormitori allora aperti,via Ormea e via Marsigli.
Nei dormitori ci sono pro e contro: oltre il dormire in un letto, c’era la possibilità di lavarsi. Io, però, mettevo fuori tutta la mia aggressività e bisticciavo molto spesso con tutti, tutta gente che – come me – viveva di espedienti. Molte volte sono stato espulso. Io preferivo starmene da solo, perché con gli altri era come “una cappa”. Inoltre c’era spaccio e io ero nel pieno del mio problema. In un certo senso capivo i “clochard” che sceglievano la libertà al di fuori del dormitorio. A un certo punto ho aperto gli occhi e mi sono trovato a un bivio e IO ho scelto di cambiare vita. Debolezza, depressione, sia a livello fisico che mentale…Non hai più dignità, sei un reietto. E’ vita? Mi sono detto: basta così! Mi hanno mandato tre anni in Sicilia e al ritorno frequentavo il Gruppo Abele dove ho conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie.
Ora vivo in una casa e quando me l’hanno comunicato ho detto subito sì senza neanche andarla a vedere. Grazie a Opportunanda ho un lavoro a metà tempo e tante care persone che mi vogliono bene! Dormire? Sì, dolce dormire…”
Ci siamo salutati commossi, ringraziandoci a vicenda.
L. e T.
ACCADE A OPPORTUNANDA
- Quest’anno la gita dell’estate si è svolta a settembre in località Celle di Caprie, con un interessante incontro con un guardiaparco che ha illustrato molti aspetti caratteristici della natura. Eravamo presenti in una cinquantina.
-Il tredici settembre è terminato il periodo di servizio civile di Valerio e Claudia. Quest’ultima però è stata assunta a tempo determinato per la sostituzione del periodo di maternità dell’operatrice Sabrina. -Come negli ultimi tre anni, in collaborazione con alcune case del quartiere e poli culturali, abbiamo segnalato cinque persone che saranno inserite nel progetto di Reciproca Solidarietà e Lavoro Accessorio del Comune di Torino. Questo permetterà alle persone di avere un’entrata di 4.000 euro lordi (per 400 ore lavorative) e di
incrementare la propria rete sociale e relazionale.
L.
PROSSIMAMENTE
In luglio sono stati selezionati una ragazza e un ragazzo per il nuovo servizio civile che inizierà ai primi di novembre.
Stanno riprendendo tutti i laboratori con la novità del “Progetto LegGo”, piccola biblioteca di strada aperta ogni martedì dalle 12 alle 16. E’ compresa anche una selezione di libri in lingua araba.
L.
LE BANCHE FALLISCONO?
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Centro Diurno: Via Sant’Anselmo 28 Tel./Fax 011-6507306

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martedì 25 ottobre 2016

ADESSO BASTA


UDI
 Valentina morta al quinto mese di gravidanza a Catania
"Sia chiarito se una donna è morta perché un medico obiettore non è intervenuto"
inserito da Redazione
Valentina morta al quinto mese di gravidanza al Cannizzaro
Sia chiarito se una donna è morta perché un medico obiettore non è intervenuto. Il legale della famiglia:
La signora al quinto mese di gravidanza, era stata ricoverata il 29 settembre per una dilatazione dell’utero anticipata. Per 15 giorni va tutto bene. Dal 15 ottobre mattina la situazione precipita. Ha la febbre alta che è curata con antipiretico. Ha dei collassi e dolori lancinanti. Lei ha la temperatura corporea a 34 gradi e la pressione arteriosa bassa. Dai controlli emerge che uno dei feti respira male e che bisognerebbe intervenire, ma il medico di turno, mi dicono i familiari, si sarebbe rifiutato perché obiettore di coscienza: fino a che è vivo io non intervengo, avrebbe detto.
È evidente che la verifica della ricostruzione della famiglia è un atto dovuto, certamente noi seguiremo le azioni della Procura e l’inchiesta degli ispettori del Ministero. Verità e giustizia sono dovuti a Valentina.
È evidente che per noi non possono bastare le sole smentite di rito, siamo da troppo tempo impegnate in un estenuante rapporto con le istituzioni nella difesa della legge 194, nel contrasto all’obiezione selvaggia e allo smantellamento e depotenziamento dei consultori pubblici. Siamo molto indignate per la mancanza di senso di responsabilità e legalità di chi ci governa e amministra la cosa pubblica.
Siamo disposte a supportare la famiglia di Valentina perché vi sia verità e giustizia
Siamo disposte a costituirci parte civile
Siamo disposte ad aprire un conflitto con l’Ospedale, con la Regione, con il Parlamento Italiano
Siamo disposte a qualsiasi cosa per qualsiasi donna che muoia per un’ingiustizia o una violenza

Adesso BASTA

In nome delle Donne
In nome di una superiore etica
in nome di una superiore moralità
Adesso BASTA dall’UDI

UDI Catania
Catania, 20.10.16

martedì 11 ottobre 2016

Parità sto cercando


Da Noidonne

Parità sto cercando

Una delle cause del mancato raggiungimento della parità tra uomini e donne deriva dalla criticità del sistema italiano e dal fatto che la componente femminile è stata integrata in settori del lavoro, della società e della politica

inserito da Noemi Di Gioia

 

Una delle cause del mancato raggiungimento della parità tra uomini e donne deriva dalla criticità del sistema italiano e dal fatto che la componente femminile è stata integrata in settori del lavoro, della società e della politica, di tradizione maschile, che, anche di fronte alle nuove sollecitazioni sociali, sono rimasti immutati.
In ambito lavorativo, per esempio, le donne innanzitutto subiscono discriminazioni dirette ed indirette nell’assunzione e nel percorso di carriera, poi, per essere accettate e per gli avanzamenti professionali, si trovano spesso costrette ad assumere a loro volta i comportamenti maschili, sono soggette alle stesse regole organizzative del lavoro, compreso gli orari, che sono stati pensati sulle necessità degli uomini, mentre sulle donne grava anche l’onere della casa e della famiglia. Ma questo non è l’unica difficoltà, in quanto il mantenimento dell’organizzazione dei tempi, secondo modalità ed esigenze maschili, per esempio, rendendo difficile per le donne, proprio perché impegnate su più fronti, l’acquisizione di capacità e di competenze attraverso quelle stesse esperienze che possono invece affrontare gli uomini, ostacola loro la progressione di carriera ed il raggiungimento di posizioni importanti, che, comunque, proprio perché richiedono un notevole investimento di tempo, in pratica, sono poco appettibili da buona parte delle donne. La loro maggior presenza nel mondo del lavoro infatti non ha ancora coinciso con mutamenti strutturali significativi. Ugualmente a livello politico, dove si avverte una grossa crisi di identità ed una perdita continua di credibilità e di consensi, la permanenza dell’organizzazione e delle modalità operative, pensate sui modelli maschili, nonostante la maggior presenza delle donne, ha impedito dei cambiamenti importanti e significativi.
Finché non si modificheranno le strutture tradizionali e le istituzioni di potere, ancora dominate dagli uomini, finché le donne saranno molto poche negli ambiti preposti alle decisioni e finché continueremo a pensare che la parità di genere debba dipendere esclusivamente dai mutamenti dei comportamenti femminili, la parità rimarrà lontana e la nostra continuerà ad essere una società che comprime, anziché sviluppare, le proprie risorse.
Stiamo vivendo una profonda incertezza non solo a livello economico, ma è entrato in crisi l’intero sistema socio- economico e politico, per cui sono indispensabili nuovi modi di pensare e di agire, perché il rimanere nella vecchia condizione comporterebbe sempre gli stessi risultati. Le donne possono dare un grosso contributo, non in quanto donne od in quanto più brave, ma perché sono portatrici di una cultura diversa.
Per permettere loro di inserirsi nella sfera pubblica ed in particolare nel mercato del lavoro e di utilizzare al meglio le competenze acquisite in sempre più lunghi percorsi formativi, bisogna quindi favorire non solo l’offerta, riducendo gli ostacoli al loro accesso, ma anche la domanda, a causa dei rischi di rimanerne escluse, per non riuscire a conciliare il tempo dedicato al lavoro con quello per la famiglia.
Si dice infatti che il vero problema per le donne non è tanto quello di sfondare il soffitto di cristallo, ma quello della conciliazione tra il lavoro retribuito e quello in casa, il cui onere grava ancora soltanto sulle donne. Innanzitutto bisogna superare il pregiudizio che la cura della famiglia è un’attività tipicamente femminile, come se solo il tempo della donna debba essere suddiviso tra lavoro fuori casa e lavoro all’interno di essa e riconoscere che uomini e donne, allo stesso modo, possano realizzarsi non solo in ambito professionale, ma anche nella cura e nelle relazioni familiari.
Bisogna infatti superare l’idea della conciliazione come problema solamente femminile. Quello che è stato sbagliato finora e che quindi ha condizionato la sua soluzione è stata proprio l’impostazione stessa del problema, perché si è basata su una visione unilaterale. Le varie politiche di conciliazione infatti non hanno prodotto dei risultati significativi e non li daranno, finché rimarrà il pregiudizio che queste politiche sono improduttive e rispondenti solo ai bisogni delle donne, quando invece nella realtà coinvolgono le donne e gli uomini, perché ci troviamo in un contesto sociale, in cui ci sono stati cambiamenti sia in ambito lavorativo, sia in quello familiare, dove sempre di più lavorano entrambi i coniugi con responsabilità di cura dei figli e degli anziani.
Favorire in Italia una cultura della conciliazione significa quindi non solo incidere sulla relazione donna/uomo, ma anche sull’organizzazione del lavoro e sulla creazione di servizi di cura alle persone. Il problema infatti investe più livelli, oltre a quello familiare con la condivisione del lavoro tra i coniugi, coinvolge anche quello del lavoro, che richiede un cambiamento dell’organizzazione e dei tempi e quello socio-politico con politiche di welfare, soprattutto con l’aumento degli asili nido e con politiche efficaci, relative ai trasporti ed ai tempi urbani.

(tratto dall’e-book di Noemi Di Gioia, “La parità tra uomini e donne: una questione ancora irrisolta. Il problema non riguarda solo le donne, ma tutta la società”, Amazon Publishing, 2016)
1.09 Ottobre2016
 

mercoledì 5 ottobre 2016

INTERNAZIONALE A FERRARA 2016


Da NOIDONNE

INTERNAZIONALE A FERRARA 2016
 
Si dice che l’Afghanistan sia una delle nazioni più pericolose per le donne, ma a ben guardare sono i diritti fondamentali di ogni essere umano a essere violati. Ne hanno parlato Horia Mosadiq, attivista per i diritti umani e giornalista afgana, dal 2008 ricercatrice per Amnesty international, e il giornalista Stefano Liberti, ospiti di Internazionale a Ferrara venerdì pomeriggio.
Quando i talebani presero il potere nel Paese, negli anni ‘90, le cose cambiarono in fretta per uomini e donne: una sharia sempre più rigida andava affermandosi, e se agli uomini era imposta la preghiera in moschea 5 volte al giorno, alle donne fu proibito andare a scuola, laurearsi, fino a rendere loro impossibile anche uscire di casa se non accompagnate. «Fu allora che il mondo dimenticò l’Afghanistan – ha commentato l’attivista – e probabilmente se ne scordò anche Dio. Rimanemmo in balìa dei talebani fino all’11 settembre 2001, quando l’Occidente ricominciò a interessarsi a noi». E oggi, a 15 anni dall’invasione occidentale, non si può dire che non sia cambiato nulla: «Abbiamo 6 milioni di bambini che hanno ripreso ad andare a scuola, le donne sono tornate al lavoro, e in diversi ruoli: abbiamo donne medico, ingegnere, in polizia». Parlando della situazione femminile nella vita quotidiana, Horia ha raccontato quanto difficile far rispettare i pochi diritti che le donne hanno ottenuto lottando duramente: un esempio tra tutti è l’ottenimento del divorzio, tanto possibile in teoria per entrambi i sessi, quanto impraticabile in realtà per le donne. «Certo, possiamo chiedere il divorzio – ha spiegato infatti Horia – ma è talmente difficile trovare le prove necessarie, e talmente limitati i casi in cui ci è concesso richiederlo, che diventa impossibile, di fatto. Inoltre, con la separazione, la donna perde totalmente ogni diritto sui figli, e per molte è difficile anche solo provvedere economicamente a se stesse, visto che la maggior parte delle donne è analfabeta in Afghanistan». Non solo: anche in caso di violenza le donne difficilmente vengono prese sul serio, sia dalla famiglia sia dalle forze dell’ordine. Come ha evidenziato Horia Mosadiq, infatti, la donna è considerata come un essere debole, non autonoma, addirittura incapace di prendere decisioni da sola. «Se si incontra una donna forte e indipendente viene immediatamente etichettata come immorale», ha continuato. Non solo accusate dai talebani, ma pure allontanate dalle proprie comunità, le donne però oggi non si scoraggiano, lavorano per il cambiamento sociale nonostante gli attacchi e gli insulti. Sanno che è necessario un sacrificio, e sono contente di subire tutto il necessario per consegnare un futuro migliore alle generazioni successive. Mentre avveniva questo cambiamento nel versante femminile della popolazione, però, gli uomini sono rimasti nelle loro convinzioni: le campagne di sensibilizzazione erano rivolte soprattutto alle donne, ma è inutile conoscere i propri diritti se non si può ottenere appoggio dagli uomini a cui si è vicine.
Sulla questione del burqa e del burkini, la Mosadiq ha voluto essere chiara: «Non dobbiamo confondere la scelta con l’imposizione – ha affermato – qualunque cosa obbligatoria è una limitazione alla libertà, ma molte donne afgane scelgono liberamente di indossarlo: il burqa può essere un’ottima protezione, e proprio molte attiviste lo usano per nascondere la propria identità».
Irene Lodi

martedì 27 settembre 2016

SIAMO EVA, SEMPRE E COMUNQUE


 
Da noi-Donne

 
Dalla rete: Violenza di genere

SIAMO EVA, SEMPRE E COMUNQUE

 

A me questa sentenza fa venire i brividi: vedo un pedofilo (condannato come tale) che compra libri assumendo il ruolo di RIEDUCATORE di una ragazzina cattiva, della lolita dei Parioli.

 

inserito da barbara giorgi

 

Un’amica avvocata mi scrive “Barbara, leggi questa.” E io leggo “La decisione della giudice: 30 libri sull’identità femminile per risarcire la 15enne dei Parioli”. (articolo su 27esimaora.corriere.it).

Non c’è che dire: sentenza originale. Bisogna vedere però se è originale in senso positivo o negativo. Per me, lo dico subito, è originale in senso negativo, perché la sentenza stabilisce “come risarcimento morale, alla 15enne romana finita in un giro di prostituzione ai Parioli, non 20.000 euro ma le poesie di Emily Dickinson o i romanzi di Virginia Woolf. I soldi no, i volumi di Sibilla Aleramo e Oriana Fallaci sì. La monetizzazione dei danni morali no, il dvd del film «Suffragette» o un’infarinatura di «La costruzione sociale del genere: sessualità tra natura e cultura», questi sì, per comprendere che il vero danno subìto, vendendo il proprio corpo a 15 anni, è la svalutazione della propria identità di adolescente.”

Tutto molto bello, in apparenza. Ma c’è da considerare alcuni punti fondamentali: in ambito penale, l’imputato è stato condannato a due anni (2 anni per aver usato, da cliente, una minorenne… lascio a voi i commenti); in ambito civile, l’imputato non deve risarcire la ragazzina con 20.000 euro per danni morali (come richiesto dalla curatrice speciale della minore, tramite l’avvocato), ma – appunto – deve fornirle libri e dvd.

Ora, per carità, trattasi di libri e film dvd indiscutibilmente di alto valore educativo, su un piano culturale e personale. Esempio: poesie di Emily Dickinson, romanzi di Virginia Woolf, volumi di Sibilla Aleramo, libri di Oriana Fallaci. Alzi la mano chi non apprezza questi scritti di donne impegnate, colte: geni della parola. Donne che danno un significato profondo all’essere donna.

Ma questo poteva essere un bel regalo del tribunale alla ragazzina. O della giudice. O della sua curatrice speciale. Non un’imposizione dettata da sentenza. Perché, scusate tanto, ma io lo sentenza – in questo modo – la vedo ribaltata contro di lei, contro questa ragazzina peccatrice che con la sua condotta immorale ha indotto sulla strada della perdizione l’uomo. E’ lei, quindi, che dovrebbe essere RIEDUCATA, non lui.

Certo, a lei serviranno anni di ri-costruzione di sé, con probabile aiuto e supporto di psicologhe, educatrici, della stessa curatrice. Ma l’educazione non si impone con sentenza. Le sentenze devono ricadere sui veri colpevoli.

Leggete tra le righe: lui assume il ruolo di chi fornisce materiale educativo, quindi di chi dovrebbe educare, quindi di chi dovrebbe ricondurre sulla giusta strada dell’etica sociale.

A me questa sentenza fa venire i brividi: vedo un pedofilo (condannato come tale) che compra libri assumendo il ruolo di RIEDUCATORE di una ragazzina cattiva, della lolita dei Parioli.

Da questa sentenza, ecco una volta di più la gogna pubblica per lei: la donna. Minorenne o adulta non conta. Abbiamo il PECCATO dentro. Dobbiamo essere rieducate e salvate dall’uomo.

Donne. Siamo Eva, sempre e comunque.

 

25 settembre 2016