sabato 16 maggio 2015

L'uomo della Sindone

Luoghi dell'Infinito - eboK n.194 - Speciale: l'uomo della Sindone
 
Descrizione di Anna Maria Canopi, badessa del monastero Mater Ecclesiae, Orta San Giulio
Dopo la cacciata di Adamo ed Eva, l’umanità è rimasta con la struggente nostalgia di vedere il volto di Dio. Di questa nostalgia è pervasa tutta la Scrittura: «Il tuo volto, Signore, io cerco… Mostrami il tuo volto!» (Sal 27,8; Es 33,18). Dio si fa percepire presente, ma riserva la visione del suo volto glorioso a chi, riconciliato con Lui e con i fratelli, entra nel Paradiso celeste. Tuttavia l’eterno Padre si è fatto vicino, vicinissimo all’uomo inviando nel mondo il Figlio come sua icona vivente. Gesù stesso all’apostolo Filippo che gli chiedeva di poter vedere il Padre, rispose: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Viene ovviamente da esclamare: beati gli occhi che videro Gesù! Ma, come dicono i Padri, questa beatitudine non ci è preclusa, perché lo sguardo della fede penetra già nelle profondità del Cielo. Tuttavia, Gesù è venuto incontro a questo nostro desiderio in modo davvero sorprendente. Anche se in quel tempo non si conosceva la tecnica della fotografia, Egli ci ha lasciato una riproduzione fedele del suo volto misteriosamente impresso sul lino con cui lo avevano coperto nel sepolcro.
La Sindone è una foto straordinaria, anzi, molto più che una foto, e anche più di un ritratto, perché non è dipinta da mano d’uomo, ma dallo Spirito, a caratteri di sangue (cf. 2Cor 3,3). Essa ci permette di vedere non solo i tratti nobilissimi del volto di Gesù, ma anche i segni della sua Passione, ponendoci quasi Il volto dell’amato davanti al Figlio di Dio glorificato sulla Croce. Di Lui il Salmista aveva profeticamente cantato: Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia (Sal 45,3). Ma il volto della Sindone è quello di Gesù schiaffeggiato, coperto di sputi, deriso; è il volto dell’Uomo dei dolori davanti al quale ci si copre la faccia (Is 53,3), tanto il suo aspetto è sfigurato. Eppure quale sovrana maestà traspare da quel volto! Più lo si contempla, più se ne è attratti. Sì, perché il volto della Sindone è il volto del Figlio di Dio fatto uomo e morto per amore. È il volto dell’Amore rifiutato ancora oggi da noi. Contemplandolo, sentiamo che Gesù ci chiede compassione. E ce la chiede nei mille e mille volti di nostri fratelli sofferenti, i martiri dei nostri giorni. Sapremo dargliela, come quella bambina che, guardando la Sindone, scoppiò in singhiozzi come se avesse avuto realmente davanti Gesù morto? Noi forse preferiremmo vedere solo il bel volto del Risorto, ma la luce della resurrezione ha la sua sorgente nella Croce. È là che bisogna guardare, per scorgere la multiforme bellezza di Gesù che è sempre bello: Bello nei miracoli, bello nella flagellazione, bello sulla croce, bello nel sepolcro, bello in cielo (Agostino, En. in Ps. 44,3). Volto di silenzio, che dice amore: volto sempre adorabile!

Breve nota personale

- Non so davvero aspirare a vedere il volto di un Dio (e chiedo venia a chi rimane male di fronte a questa mia nota).
Vedo, eccome, e con estrema compassione, i volti umani sfigurati dal dolore patito per sventura o per colpa di altri; ma sfigurati anche dalle proprie colpe commesse nei riguardi degli innocenti…
- Mio Dio, perché chiedo a Te un perché al dolore e al male del mondo?
- Rifletto: preferisco implorare il Tuo aiuto per riuscire ad amare questo mistero; forse solo allora capirò senza trovare una risposta razionale.

 

 

 

 

 

 

 

martedì 12 maggio 2015

Sulla festa delle donne

La Festa della Mamma vista da cinque uomini e due donne
Inserito nel sito “Noi Donne" da Gianguido Palumbo Pagi
E’ appena trascorsa “la Festa della Mamma” : da anni ogni seconda domenica di maggio in Italia e non solo si festeggiano le Mamme, le Madri (due parole differenti per due differenti percezioni).
Mi sono svegliato domenica mattina 10 maggio, Festa della Mamma, con in testa fra sogno e sapienza uno strano quanto fecondo intreccio di immagini e pensieri: la Pietà di Michelangelo, la Poesia di Pasolini dedicata all’adorata madre, il suo Film sul Vangelo secondo Matteo (con sua madre che recita la parte della madre di Cristo), Nanni Moretti accanto al letto della madre morente nel suo film Mia Madre, la recensione dell’ennesimo libro di Recalcati Le mani della Madre, la recensione del libro “Dovremmo essere tutti femministi” ( proprio al maschile ) della nigeriana Ngozi Adichie, e sopra tutto e tutti le frasi dissacranti e quasi iconoclaste del gestore romano del Biondo Tevere, famosa trattoria sul fiume in Via Ostiense, dove Pasolini andava spesso a mangiare e dove andò l’ultima sera prima di andare ad Ostia ed essere poi ucciso quarant’ anni fa, nel novembre del 1975.
Ero lì sabato a pranzo: Dottò, oggi nun ce stà tanta ggente a magnà pecchè domani, a Festa da Mamma, vengono tutti qua co e Mamme, Nonne co l’ossigeno attaccato e se magneno tutta a pensione e tutta a pasta de le nonne e de le mamme ! E famolo qua sto novo film, co e Mamme e le Nonne co l’ossigeno che se magneno tutto!“. L’Oste del Biondo Tevere distruggeva brutalmente, con una certa tenerezza, il mito delle Mamme e delle Nonne riportandolo ad un affetto interessato dell’intera Famiglia Italiana, popolare o “piccolo borghese” (come scriveva appunto Pasolini).
Eppure i frammenti di storia della Festa della Mamma recuperabili in rete sono molto interessanti. In quasi tutto il mondo inevitabilmente la Festa della Mamma è datata in Primavera (e quindi in pieno maggio) per la connessione con la fertilità della Natura. Ecco alcuni accenni delle tradizioni in altri Paesi: in Etiopia con balli e cibi si festeggia anche l’inizio della stagione delle piogge; in Iran la festa coincide con il compleanno della figlia più giovane di Maometto, e solo in Indonesia invece si festeggiano le Madri il 22 dicembre con una forte relazione con il loro ruolo socioeconomico e non solamente familiare; in Inghilterra bisogna arrivare al ‘600 per trovare i primi festeggiamenti collegati al lavoro nei campi con il Mothering Sunday e in America del Nord addirittura l’800 per la istituzionalizzazione nazionale della festa. In Italia tale ricorrenza è diventata davvero nazionale solamente nel dopoguerra dal 1957 quando fu promossa per la prima volta da un sacerdote , Don Migliosi in un paesino vicino Assisi a Tordibetto, e dato il successo fu imitato progressivamente di anno in anno da tanti altri piccoli paesi, città, istituzioni religiose e non, fino a diventare Festa Nazionale. Ma l’origine greca della festa è molto interessante per i risvolti culturali profondi che ci racconta ancora oggi. Nell’Antica Grecia in primavera si festeggiava la divinità Rhea, considerata la madre di tutti gli dei e dello stesso Zeus (partorito di nascosto in una grotta per evitare che venisse ucciso da Crono, suo “marito” che temeva, guarda un po’, di perdere il trono se fosse nato un figlio maschio suo successore).  Nell’Antica Roma la divinità madre Rhea era diventata Cibele e veniva adorata anche come protettrice della Terra: ogni anno in primavera nel mese di maggio le si dedicava un’intera settimana di feste. Nel mio intreccio mattutino di immagini e sogni dedicati alla figura della Madre, i protagonisti-artisti-scrittori-registi erano quattro, tutti uomini, due omosessuali ( Michelangelo e Pasolini ) e due credo eterosessuali (Recalcati e Moretti) con relative interpretazioni e “messe in scena” del rapporto con la figura materna.
Tenuto da parte l’Oste della trattoria romana, quinto uomo, la mia reazione alla Festa della Mamma di domenica si arricchiva della lettura critica e della autopresentazione di un libro appena uscito in Italia sul Femminismo (“Dovremmo essere tutti femministi”) di una scrittrice nigeriana. La stranezza, o meno, di questo abbinamento forzato fra le rielaborazioni maschili sulla Madre e le elaborazioni femminili sulle Donne, è che nell’articolo della Mazzucco che recensiva il libro di Ngozi Adichie e nell’articolo di quest’ultima (su La Repubblica RCult di domenica 10 maggio) non vi era neanche una sola riga sulla maternità, sulle Donne Madri, sul Femminismo storico e su quello attuale e la Maternità.
Non è che nell’oscillazione fra “Femminismo” e “Mammismo” rischi di crearsi un vuoto, un silenzio, sia da parte maschile che femminile?
Aggiungerei qualche riga sulle donne assassine dei propri figli, e sugli uomini spietati nei riguardi delle donne che dicono di amare…. Ausilia

lunedì 27 aprile 2015

Un libro scritto da un ergastolano


Vi inoltro con un certo sussiego per tanti motivi.

Capisco che oggi a molti può sembrare controproducente interessarsi alla condizione carceraria dell’ergastolano. L’aria che tira va in senso opposto e saper fare dei distinguo non è di tutti. C’è in giro una comprensibile paura dei ladri e di tanti attuali disagi; c’è voglia di liberarsi di chi pare ci rubi il nostro spazio vitale; c’è voglia di vendetta; non si sopporta la facile, talvolta davvero insensata scarcerazione. Si sta diffondendo un clima di intolleranza nei riguardi dei ‘clandestini’ pericolosi, e non è il caso di fare un elenco dei fatti provocati ANCHE dal moltiplicarsi degli sbarchi degli immigrati e dei rifugiati, come ANCHE da una ‘giustizia’ ballerina nelle sentenze. L’eccetera è d’obbligo.

Ma leggere Carmelo Musumeci potrebbe fare del bene a tutti, compresi i giustizialisti più impietosi: ci si trova di fronte ad un uomo sensibile, un uomo davvero redento come ce ne potrebbero essere altri ed altre suoi pari. E, se anche solo una persona ce la fa a redimersi, la cosa fa pensare ai sani di mente, come ce ne sono ancora in questa povera terra.

Ausilia

 

http://giornodopogiorno-ausilia.blogspot.it/  

 

Da: ergastolani@apg23.org [mailto:ergastolani@apg23.org]
Inviato: lunedì 27 aprile 2015 16:04
A: Undisclosed-Recipient:;
Oggetto: SETTIMA parte: Il primo permesso premio dopo 24 anni da uomo ombra

 
Lo scorso 14 marzo Carmelo Musumeci, finora ergastolano ostativo ai benefici penitenziari, è uscito per la prima volta, per nove ore, in permesso premio, dopo 24 anni di detenzione.
In carcere ininterrottamente dal 1991, non aveva mai usufruito di nessun beneficio e gli era stato concesso solamente un permesso di necessità di undici ore, nel maggio 2011, per laurearsi in Giurisprudenza a Perugia. Di questo giorno ne aveva descritto ogni fatto ed emozione in un libro: "Undici ore d'amore di un uomo ombra" , di Carmelo Musumeci, con la prefazione di Barbara Alberti- Gabrielli Editori. 


vedi

sabato 28 febbraio 2015

a) L. Manicardi - S. Natoli Dialogo sulla felicità
 

Più di duecento persone hanno partecipato il 20 febbraio 2015, al Dialogo sulla felicità tenutosi nell’Aula Magna del Seminario vescovile di Nola. Due gli illustri relatori: il docente di filosofia Salvatore Natoli e il vicepriore della Comunità di Bose, Luciano Manicardi. Pur guardando alla felicità da prospettive diverse, sono emersi molti punti di contatto tra le posizioni dei relatori. Entrambi hanno rilevato infatti che nel senso comune la felicità sia percepita come qualcosa che ci tocca per alcuni attimi ma che non ci appartiene. Di essa si fa infatti esperienza in modo sentimentale, vivendola quindi nei termini di intensità e di labilità insieme. 
 
La felicità, illusoria ed effimera 
Come ricordato dal professor Natoli, questa visione superficiale della felicità come illusoria ed effimera espansione di noi stessi sembra essere patrimonio comune all’umanità di ogni tempo. L’analisi etimologica delle parole tramite le quali le diverse lingue esprimono il concetto di felicità, denuncia infatti l’idea ricorrente di un benessere improvviso dovuto al caso. Platone, per esempio, nel discorso sulla felicità partiva da Afrodite adottando il modello orgasmico del culmine e della caduta. Agostino di Ippona, che pure vedeva nella felicità la ragione del filosofare, la definiva come raptim quasi per transitum. Mentre secondo Freud la felicità non stava tanto nel momento dell’eccitazione ma nella tregua della pulsione.
 
La felicità tra Cristianità e Cristianesimo 
Natoli, d’accordo con Manicardi, a riguardo distingue nettamente tra Cristianità e Cristianesimo. Ovvero tra la felicità della visione cristiana e quella che si sarebbe invece imposta nel mondo cristiano. La Cristianità avrebbe infatti relegato la felicità al mondo ultraterreno rendendo così meno vivibile quello terreno. Il modello a cui guarda invece Natoli è quello greco, a partire da Aristotele che considerava la felicità come il fine della vita. Per l’uomo greco la felicità era possibile e risiedeva nella virtù. Non nella virtù castrante che avrebbe caratterizzato la Cristianità nell’idea del virtuoso infelice e del trasgressivo gaudente, bensì nell’ars vivendi: l’arte del vivere che appartiene ad ogni uomo. Il greco ascoltava la voce del suo daimon e faceva proprio la massima delfica del Conosci te stesso. In questo modo conosceva le sue potenzialità e imparava a trarsi fuori dalle difficoltà. La felicità non era quindi premio delle virtù ma risiedeva nell’esercizio stesso di queste ultime. L’uomo greco era l’autore della propria realizzazione, l’artista della sua esistenza. 
Gesù ha vissuto una vita felice? E’ questa la provocazione che guida invece l’intervento di Luciano Manicardi. Anche secondo lui, riprendendo un’affermazione di Adorno, la felicità non si possiede ma si è in essa. Anche il monaco di Bose parte dall’analisi linguistica rifacendosi però all’origine indoeuropea della parola “felicità” che rimanda alla fecondità, al dare frutti. Da questo punto di vista, quella di Gesù Cristo fu senza dubbio una vita felice. E infatti è la Scrittura stessa ad attestarlo. Il Vangelo di Luca riporta il trasalire di gioia di Cristo nel ricordare la preferenza divina per i piccoli rispetto ai dotti e ai sapienti (Lc 10, 21-24). La sorgente della felicità di Gesù era quindi la relazione col Padre nella quale erano però compresi anche i discepoli. Anche per Manicardi, come per Natoli, la felicità è sempre inclusiva e consiste nel donare e nel donarsi. Se però per il filosofo la questione del dare è più problematica (cosa dare all’altro? Come capire cosa davvero gli serve? Come donare senza rischiare di invaderlo?), per il monaco l’esempio di Cristo è liberante. Quello di Gesù è infatti simultaneamente un dare tempo, ascolto e presenza. È un parlare che ascolta e che quindi fa emergere l’altro. L’insegnamento secondo cui c’è più gioia nel dare che nel ricevere (Atti 20, 35) è comprensibile solo nella prospettiva delle beatitudini, dove il rovesciamento del concetto mondano di felicità ha esiti apparentemente paradossali.
 
Il segreto della felicità 
Se la felicità è donarsi, gli esatti contrari sono l’invidia e la concupiscenza che schiaccia gli altri e se ne serve. Entrambe queste cose impediscono la felicità propria e quella altrui, perché fare male è anche farsi male. In conclusione, per entrambi i relatori la felicità sta nella semplicità e nella bontà di cuore. Nel sapersi meravigliare delle piccole cose, guardando le cose ordinario in modo straordinario e mantenendo sempre una giusta relazione (che non è mai il possesso) con tutto quello che ci circonda.
 
Due miei punti di vista:
1) Gli impiccati sono dei di-sperati che cercano l’unica via di uscita che ritengono di poter utilizzare; e non sono solo i condannati in prigione: quel che fa raccapriccio è il fallimento di uno stato che vendica la colpa e non offre la via della redenzione.
2) Opto per la felicità feconda (come suggerisce l’etimologia del termine): l’esistenza terrena è ben triste se serve soltanto per nascere-crescere- decrescere-morire. Ma il rimedio per perpetuare la vita non è generare figli (nella discendenza potrebbe esserci degli infelici…); è lasciare una traccia di Bene.
 
b) Gli impiccati
 
 
È questa una macchina mostruosa che schiaccia e livella secondo una certa serie. Quando vedo agire e sento parlare uomini che sono da 5, 8, 10 anni in carcere, e osservo le deformazioni psichiche che essi hanno subito, davvero rabbrividisco, e sono dubbioso nella previsione di me stesso. Penso che anche gli altri hanno pensato (non tutti ma almeno qualcuno) di non lasciarsi soverchiare e invece, senza accorgersene neppure, tanto il processo è lento e molecolare, si trovano oggi cambiati e non lo sanno, non possono giudicarlo, perché essi sono completamente cambiati”.  (Antonio Gramsci, Lettera a Giulia,  19 novembre 1928).
A volte penso che molti detenuti che in carcere si tolgono la vita forse scelgono di morire perché si sentono ancora vivi. E  forse, invece, alcuni rimangono vivi perché si sentono già morti o hanno già smesso di vivere. Credo anche che molti detenuti si tolgano la vita perché l’Assassino dei Sogni (il carcere come  lo chiamo io) non risponde mai ai loro appelli disperati. Altri invece lo fanno per ritornare a essere uomini liberi. E molti si tolgono la vita perché non hanno altri modi per dimostrare la loro umanità.
Oggi nella rassegna stampa ho letto la notizia di un altro suicidio, poche parole, pochi dati:
Si chiamava Osas Ake. Si è impiccato nel carcere di Piacenza. Era in cella di isolamento perché "molto agitato". Aveva 20 anni, era nigeriano
.
Ed ho pensato a quella volta che ero entrato in una cella dove s’era impiccato un detenuto: Piano terra, cella 17. La chiave non girava. La mandata non scattava. Il blindato non si apriva.
Mi stanco di aspettare con il sacco nero della spazzatura con dentro la mia roba personale sulle spalle. La poso in terra e chiedo alla guardia: Ma da quando è che non aprite questa porta? La guardia prima di rispondermi mi guarda con sufficienza, dall’alto al basso e poi ringhia: Da alcuni mesi, c’erano i sigilli giudiziari, c’è stata un’inchiesta, quello che c’era prima si è impiccato tra le sbarre. Puzzava di galera. Aveva una faccia da beccamorto. Una faccia di vampiro sfortunato che non riceveva da tempo una sufficiente razione di sangue. Gli dico: Mettetemi in un’altra cella.
La faccia da beccamorto mi risponde: Non sei in albergo, qui sei a Nuoro e poi celle libere non ce ne sono. E poi urla alla guardia del piano di sopra: Collega, manda quelli della manutenzione: la porta non si apre. Io intanto aspetto. Dopo dieci minuti arriva una guardia con due lavoranti e un cannello con la fiamma ossidrica. Tagliano la serratura e ne saldano una nuova. Entro, mi chiudono il cancello e mi lasciano il blindato aperto. Mi guardo intorno, non mi muovo, rimango fermo e  vedo escrementi di topo dappertutto, ragnatele al soffitto, macchie di umidità alle pareti. Ero arrivato all’inferno di Badu e Carros. E pensai per un attimo di impiccarmi anch’io alle sbarre della finestra. Solo i coraggiosi però hanno il coraggio di evadere dal carcere, i vigliacchi come me  rimangono. Ed io sono rimasto in quella cella per cinque lunghi anni. Poi ho saputo che il compagno che s’era tolto la vita in quella cella era un ergastolano ostativo. E sono diventato amico del suo fantasma che mi ha tenuto compagnia per tanti anni.
Carmelo Musumeci  - Febbraio 2015
 
Due miei punti di vista:

1) Gli impiccati sono dei di-sperati che cercano l’unica via di uscita che ritengono di poter utilizzare; e non sono solo i condannati in prigione: quel che fa raccapriccio è il fallimento di uno stato che vendica la colpa e non offre la via della redenzione.

2) Opto per la felicità feconda (come suggerisce l’etimologia del termine): l’esistenza terrena è ben triste se serve soltanto per nascere-crescere- decrescere-morire. Ma il rimedio per perpetuare la vita non è generare figli (nella discendenza potrebbe esserci degli infelici…); è lasciare una traccia di Bene.
 
 
 
 

domenica 15 febbraio 2015

L'Expo ne La Stampa


La Stampa, 15 febbraio 2015  di ENZO BIANCHI (dal sito del Monastero do Bose)
La febbre per l’Expo di Milano è salita, e grande è l’attesa per la kermesse, intensa la sua preparazione: ormai è presentata ogni giorno di più come il grande evento, capace di mutare la sorte del nostro paese e del nostro futuro. Dai diversi annunci quotidiani di iniziative e incontri culturali tutto sembra nuovissimo e inedito: si è portati a credere che si stia andando verso un evento escatologico.
Anche l’area cattolica si è mobilitata e, come quasi sempre succede, lo sta facendo per lo più appiattendosi sui percorsi più facili e imitandone lo stile, nella speranza di ottenere la stessa performance che eccita tutti. Ormai, lo dico con tristezza, anche la pastorale si è piegata ai temi dell’Expo e perfino nelle omelie domenicali si affrontano quegli argomenti anziché annunciare il vangelo. Ci sono addirittura iniziative editoriali che propongono stravaganti riflessioni di teologi: “Gesù era un gran cuoco”, “sua madre confezionava per lui piatti speciali”... Insomma, ancora una volta, la bibbia è come il vaso di Pandora da cui si estrae quello che si desidera poter dire con un’autorevolezza che non si possiede, invece di quello che la bibbia dice. 
Che tristezza! Un’iniziativa risalente già alla fine dell’Ottocento, dotata di una logica propria, un evento di grande significato tecnico, economico e sociale è oggi rivestito di una capacità “spirituale”, è indicato, attraverso menzogne e ipocrisie, come portatore di valori per il fatto stesso di prodursi. Come se tutti avessero dimenticato la corruzione che ha ammorbato la preparazione dell’evento e che non dà garanzie di non contaminarne anche gli sviluppi successivi, come se si ignorasse che la logica dominante è quella dell’agrobusiness in mano alle grandi multinazionali, come se non si volesse vedere che lo scopo primario è disporre di una grande vetrina, di un immenso spettacolo, magari anche molto redditizio, naturalmente per pochi. “Nutrire il pianeta” diventa uno slogan, ripetuto a basso prezzo anche da chi non si sogna nemmeno di muovere un dito per nutrire gli affamati in carne ed ossa. Si finge di ignorare che questo ideale straordinario di previdenza indispensabile richiede da parte nostra un cambiamento di stili di vita, una consapevolezza del fatto che la dignità umana è rispettata solo attraverso l’uguaglianza e la giustizia: se regna l’iniquità – letteralmente la non-equità – e si persevera nel consentire un’economia di esclusione, non si nutre il pianeta ma si continuano a creare reietti dalla tavola del mondo. Alcuni, come Carlo Petrini ed Ermanno Olmi, sono già intervenuti per ammonire che l’Expo non si riduca a una fiera occasionale e pacchiana del cibo; il ministro delle politiche agricole ha lanciato la proposta che l’Italia riconosca esplicitamente nella propria carta costituzionale il diritto al cibo. Sono segnali positivi che vorrebbero dare un’anima a un’iniziativa che rischia di essere solo una kermesse affaristica. 
Ma ci sono state parole ancora più forti e dirimenti da parte di papa Francesco in un messaggio inviato a quanti, nell’hangar della Bicocca, erano impegnati nelle prove generali per l’Expo. Papa Francesco, come già aveva fatto alla FAO, ha pronunciato una frase che dovrebbe essere il vero monito perché l’Expo si orienti davvero a nutrire il pianeta. Ha ricordato una sentenza ascoltata da un vecchio contadino: Dio perdona sempre, le offese, gli abusi; Dio sempre perdona. Gli uomini perdonano a volte. La terra non perdona mai! Parole dure come pietre, ma che sentiamo vere perché ogni giorno ormai ne facciamo esperienza attraverso alluvioni, esondazioni, frane di una terra che abbiamo devastato negandole la possibilità di obbedire alle leggi della natura. Una terra che sfruttiamo e spremiamo per una produzione che sia vincente sul mercato, una terra che non consideriamo più né madre né sorella ma solo matrice da sfruttare senza limiti e con tutti i mezzi, anche a costo di depauperarla e desertificarla nel domani: basta che oggi sia in grado di dare a noi non solo il necessario ma soprattutto il superfluo. Una terra che non è più un bene comune, quella tavola imbandita per tutta l’umanità, alla quale tutti hanno il diritto di sedersi per mangiare, quel tesoro ricevuto in eredità dalle generazioni che ci hanno preceduto e in prestito dalle generazioni a venire... No, viviamo la terra come fornitrice a pochi di risorse e cibo perché si rimpinzino fino all’obesità e neghi ad altri il necessario vitale che il mercato non riconosce perché per lui non redditizio. 
Papa Francesco avverte che gli esclusi sono non solo esclusi o sfruttati, ma rifiuti, avanzi, scarti dell’umanità, cui non vanno nemmeno le tonnellate di scarti alimentari che intasano le nostre discariche di rifiuti. Siamo succubi di un’economia che vive di adorazione del Dio denaro, alienata al denaro, prostrata davanti alle esigenze del mercato e segnata da una competitività per cui il più forte ha la meglio sul più debole. Ci siamo talmente imbarbariti da chiamare legge del mercato la legge della giungla, il primitivo prevaricare del più forte sul più debole. E dimentichiamo che da sempre sono i poveri che vanno dove c’è il pane e non è il pane che rincorre i poveri. 
Occorre dunque che ci poniamo alcune domande: può essere straordinario il compito di “nutrire il pianeta”, ma a chi lo affidiamo? È lasciato alla programmazione di multinazionali che obbediscono sempre e solo alle leggi del proprio tornaconto? Se invece nutrire il pianeta è compito comune e appartiene alla responsabilità di perseguire il “bene comune”, chi sono i soggetti che se ne incaricano, con quali mezzi a disposizione, con quali criteri di giustizia ed equità, con quale compatibilità con la pace, la solidarietà, la dignità umana, la fratellanza universale? 
E la chiesa cattolica che farà dell’Expo? Si accontenterà di avere una vetrina tra i grandi o saprà partecipare a questa iniziativa in modo eloquente e profetico, con la parresia e la forza di critica e di denuncia in nome del vangelo, unica istanza che giustifica la presenza della chiesa e la può ispirare? Una presenza non finalizzata a propagandare la propria dottrina ma a ribadire che il cammino di umanizzazione è il “suo” cammino, un cammino che nasce dalla fede in un uomo che “ha voluto insegnarci come vivere in questo mondo”, dice l’apostolo Paolo, un uomo che veniva da Dio ed era suo Figlio ma che si è liberamente collocato dalla parte dell’uomo, pienamente solidale con noi, e che ha mostrato sollecitudine e cura soprattutto per chi era nel bisogno, nella fame, nella povertà, in condizione di straniero. 
Non facciamo dell’evento dell’Expo la fiera degli auguri, il campionario dei proclami di intenti caritatevoli: sia invece occasione per affrontare seriamente, responsabilmente e concretamente i temi urgenti della fame e della povertà, ormai presenti anche in mezzo al mondo industrializzato, gli appelli improcrastinabili che la terra ci rivolge per la sua custodia e salvaguardia, il rispetto dei diritti delle generazioni future. Per tutti occorrerebbe che l’Expo diventasse l’occasione per far risuonare il comandamento: “Ama la terra come te stesso!”.

martedì 10 febbraio 2015

Un libro di papa Francesco


Papa Francesco - Questa economia uccide

di Tornielli Andrea, Galeazzi Giacomo - Piemme
FineDescrizione
Questo papa venuto dalla fine del mondo "demonizza il capitalismo". Sono bastate poche frasi del pontefice "contro l'economia che uccide" per bollarlo come "papa marxista". Che a fare certi commenti siano editorialisti di quotidiani finanziari, o esponenti di movimenti come il "Tea Party" americano, non deve probabilmente sorprendere. Molto più sorprendente, invece, è che siano stati condivisi anche da alcuni settori del mondo cattolico, dal momento che, come mostrano Tornielli e Galeazzi, vaticanisti fra i più accreditati nel panorama internazionale, alla base dei ragionamenti di Bergoglio non c'è che la radicalità evangelica dei Padri della Chiesa. Delle disuguaglianze sociali e dei poveri è ammesso parlare, a patto che lo si faccia di rado. Un po' di carità e un pizzico di filantropia, conditi da buoni sentimenti, vanno bene, mettono a posto la coscienza. Basta non esagerare. Basta, soprattutto, non azzardarsi a mettere in discussione il "sistema". Un sistema che, anche in molti ambienti cattolici, rappresenterebbe il migliore dei mondi possibili, perché - come ripetono senza sosta le cosiddette "teorie giuste" - più i ricchi si arricchiscono meglio va la vita dei poveri. Ma il fatto è che il sistema non funziona, e oggi viene messo in discussione da un papa che in questo libro propone una riflessione sul rapporto fra economia e Vangelo. Temi che troveranno spazio anche nella sua prossima enciclica. Con un'intervista esclusiva su capitalismo e giustizia sociale.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
 
IN VATICANO C'È UN PAPA MARXISTA?
Francesco, l' economia che "uccide" e le amnesie dei cattolici
«Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.» Hélder Càrnara, vescovo di Recife
«Oggi dobbiamo dire "no a un'economia dell'esclusione e della inequità". Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa ... Alcuni ancora difendono le teorie della "ricaduta favorevole che presuppongono che ogni crescita "economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo,gli esclusi continuano ad aspettare ... »
Sono bastate poche frasi, un pugno di parole, qualche sparuto paragrafo inserito in un ampio e articolato documento dedicato ali 'evangelizzazione, anzi alla «gioia del Vangelo».
Papa Francesco, a otto mesi dall'elezione, dopo aver pubblicato l'esortazione Evangelii Gaudium, è stato bollato come papa "marxista" da ambienti conservatori americani. E qualche tempo dopo, l' «Economist» l'ha persino definito un seguace di Lenin nelle sue diagnosi sul capitalismo l'imperialismo. Il gesuita argentino che da superiore della compagnia nel suo paese e poi da vescovo era conosciuto per non aver mai sposato certe  della liberazione al punto da essere accusato di conservatorismo, si è ritrovato accostato al filosofo di Treviri e ai suoi tanti epigoni, compreso l'artefice della rivoluzione bolscevica. Ma più che accuse di marxismo e leninismo, rozze tanto quanto coloro che le hanno rivolte al papa a colpire sono state critiche e distinguo su questo argomento iniziate ancor prima della pubblicazione dell'esortazione apostolica, e continuate anche in seguito. Questo papa «parla troppo dei poveri», degli emarginati, degli ultimi. Questo papa «latinoamericano» non capisce un granché di economia. Questo papa «venuto dalla fine del mondo» demonizza il capitalismo, cioè l'unico sistema che permette ai poveri di essere meno poveri. Questo papa non soltanto compie gesti politicamente scorretti (come quello di andare a Lampedusa per pregare davanti al mare, divenuto la tomba di migliaia di immigrati alla disperata ricerca di una speranza), ma s'immischia in faccende che non gli competono e si mostra evidentemente «paupe­rista».
Un quotidiano, «II Foglio», (battezzatosi alla papalina come «Il Soglio» durante il pontificato ratzingeriano, arriva persino a bollare come «ereticali» le parole del pontefice argentino: «reo» di aver parlato dei poveri dei sofferenti come «carne di Cristo», dopo aver abbracciato e benedetto, per un'ora in silenzio, ragazzi e giovani gravemente ammalati ad Assisi.
A stupire non è tanto la superficialità delle accuse, quanto piuttosto l'oblio nel quale sembra essere caduta una porzione consistente della grande tradizione della Chiesa, quella che va dai Padri al magistero di un pontefice certamente non sospettabile di modernismo a progressismo, quale fu Pio XI, al secolo Achille Ratti
Parlare dei poveri per un certo establishment è ammesso, a patto che lo si faccia di rado e soprattutto a patto che lo si faccia nei modi ben accetti a determinati ambienti. Un po' di carità, condita di buoni sentimenti, va benissimo, anzi, aiuta a mettere a posto la coscienza. Basta non esagerare.
Basta, soprattutto, non azzardarsi a mettere in discussione il sistema. Un sistema che, a detta di tanti anche cattolici, rappresenta il migliore dei mondi possibili per gli emarginati - giacché, insegnano le teorie "giuste" - più i ricchi si arricchiscono e meglio va la vita dei poveri. Un sistema di­ venuto dogma persino in casa cattolica, al pari di altre verità di fede. Si sa: cristianesimo è uguale a libertà, libertà è uguale a libera impresa e dunque capitalismo, capitalismo è uguale a cristianesimo in atto. E non bisogna sottilizzare sul fatto che viviamo in un economia che di capitalistico ha ormai poco a nulla, come quasi nullo è il suo legame con la cosiddetta "economia reale". La bolla finanziaria, la speculazione, gli indici della Borsa, il fatto che l'oscillazione di quegli indici possa scaraventare intere popolazioni sotto la soglia della povertà facendo lievitare di colpo il prezzo di alcune materie prime ... tutte realtà che dobbiamo accettare alla stregua degli "effetti collaterali" delle guerre "intelli­genti" di ultima generazione. Dobbiamo accettarle, queste realtà, e starcene pure in silenzio. Il dogma è dogma, e chi lo mette in discussione, se va bene, è un illuso. Altrimenti è un sovversivo. 
 

martedì 3 febbraio 2015

Buon lavoro al Presidente


Buon lavoro al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella
La Costituzione, i diritti, le donne e i prossimi sette anni
inserito da Tiziana Bartolini
Apprezzabile. Apprezzabile e condivisibile il messaggio che poche ore fa il neoeletto Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha pronunciato davanti all’assemblea dei grandi elettori che sabato scorso lo hanno eletto alla quarta votazione. Condivisibile perché ha chiamato in causa la “comunità nazionale” - bella espressione - nelle varie articolazioni e nelle varie responsabilità e ruoli riguardanti ogni parte. Condivisibile perché includente - e non ecumenico - rispetto a soggetti e protagonisti della scena sociale, quali sono i nuovi italiani. Condivisibile perché ha sottolineato i disagi e le sofferenze che attraversano oggi l’Italia senza toni drammatici e di facciata. Condivisibile perché il suo tenere la Costituzione come punto di riferimento è apparso denso di significati sostanziali, libero da una lettura retorica e consapevole della necessità di aggiornamenti dettati dall’incalzare dei tempi. Nella veste di garante della nostra Carta fondativa si è proposto come custode della possibilità di innovare senza tradire il mandato dei padri e delle madri costituenti. Ecco, le donne. Apprezzabile è apparso il suo composto riferimento alle violenze e discriminazioni che subiscono le donne nel nostro Paese. Sobrio ma di sostanza, anche quel riferimento, come si preannuncia questo settennato. E va bene, perché le donne non hanno bisogno di proclami scapigliati, ma di atti amministrativi concreti e di una nuova cultura che modifichi davvero e nel profondo le relazioni tra le persone. Le relazioni tra chi ha più potere e chi ne ha meno. Apprezzabili anche i passaggi in cui ha sottolineato che chi più ha deve contribuire in più larga misura. Ecco, riequilibrio, valore e idea di società che può andare bene alle donne che rifiutano la sottomissione come cifra delle relazioni. Poi l’immagine d una scuola che funzioni e che sia dignitosa, dell’ospedale che rispetti il malato, dell’ufficio pubblico efficiente. Signor Presidente, se terrà fede a queste premesse continueremo ad apprezzarLa. Così come abbiamo apprezzato la condanna per le mafie e l'illegalità, il riferimento all’Europa della solidarietà, al valore della pace e la preoccupazione per il pericolo dei venti oscurantisti che la minacciano. La custodia della democrazia è affidata anche alla libertà di stampa, questione oggi più che mai aperta per un giornale come il nostro e come tanti altri (no profit, cooperativi e di prossimità) la cui esistenza è minata nelle sue fondamenta a causa di tagli ai contributi pubblici per l’editoria. Confidiamo che nei prossimi giorni arrivi al Presidente Sergio Mattarella il nostro appello affinché tante idee possano continuare ad essere vive ed ascoltate. Attraverso la nostra voce, ad esempio, vogliamo da un lato non sottovalutare l’impatto (anche simbolico) delle figure femminili che hanno accompagnato l’elezione del dodicesimo Presidente della Repubblica (la presidente della Camera Laura Boldrini e la vice presidente del Senato Valeria Fedeli), e dall’altro rilevare la totale assenza di donne alla solenne cerimonia del saluto al Milite ignoto. La fugace apparizione, forse, di una carabiniera nella carrellata televisiva che riprendeva i drappelli dei militari in Piazza Venezia non può bastare. Solo per sottolineare che siamo ad un certo punto del nostro cammino, ma solo ad un certo punto.