È bene ricordare, al riguardo, la rilettura di questa tentazione fatta da Fëdor
Dostoevskij, nella “Leggenda del grande inquisitore: “Vedi queste pietre nel
deserto nudo e infuocato? Mutale in pane e l’umanità ti seguirà come un gregge
docile e riconoscente”.
Giorno dopo giorno irrompe nel nostro percorso di vita il mondo che ci circonda in tutti i suoi aspetti. Quante cose da imparare! Stare ATTENTI a cogliere la verità che si nasconde in tutto significa non isolarsi, ESSERE-CON. E perché non anche CON te che leggi? Ausilia
martedì 28 febbraio 2017
XIX edizione di Semi di pace
Dalla rete: Mondo
Semi di pace: la parola alle donne
Concluso il soggiorno delle testimonial della XIX edizione di Semi di pace, progetto di Confronti per il dialogo tra israeliani e palestinesi
inserito da Tiziana Bartolini
Sono quattro donne, due israeliane e due palestinesi, le testimoni alle quali ha affidato il suo messaggio “Semi di Pace”, un progetto promosso dalla rivista “Confronti” con il sostegno dell’Otto per mille della Chiesa valdese – Unione delle chiese metodiste e valdesi. È un cammino che viene da lontano e che ha sempre mantenuto fede all’obiettivo di dare voce a chi in quei territori è impegnato nell’educazione alla pace e al dialogo tenendo presente la complessità del conflitto israelo-palestinese, nel contesto di un Medio Oriente in crisi. L’edizione del 2017, la diciannovesima, è stata presentata con una conferenza stampa presso la Camera dei Deputati (21 febbraio) con le testimonianze di persone “che vivono il conflitto arabo-israeliano, donne e uomini che proprio alla luce delle loro ferite non hanno rinunciato a coltivare semi di dialogo” ha detto il direttore di “Confronti”, Claudio Paravati.
L’Onorevole Khalid Chaouki, portando il suo saluto, ha parlato di una “contro-narrativa” sottolineando l’importanza di far conoscere l’esistenza di realtà positive, molto importanti “in un’Europa dove monta il pregiudizio e l’islamofobia”.
I racconti delle testimonial sedute una accanto all’altra toccano il cuore, nonostante la brevità e la traduzione che inevitabilmente attutisce l’impatto delle parole.
Ha ragione Shata Bannousa, palestinese e volontaria del Bethlem Fair Trade Artisans (BFTA): “ogni famiglia palestinese ha una storia da raccontare. Noi palestinesi siamo stati buttati fuori dalla sera alla mattina. Avevo solo 5 anni, ma ricordo tutto: la permanenza in Giordania, l’arrivo a Ramallah, le ruspe. Siamo abituati a vedere nelle città soldati israeliani armati fino ai denti ed è complicato capire la situazione, ci vorranno ancora molti anni”. Shata ha avuto delle opportunità, ha studiato a Betlemme e a Milano e oggi lavora in una organizzazione umanitaria, la BFTA, importante organizzazione che sostiene tutte le attività artigianali che putano sul riciclo. “Abbiamo dato vita a un progetto speciale che vede la collaborazione di israeliane e palestinesi. Il BFTA (www.fairtrade.org), premiato nel 2015, è l’unico soggetto che si occupa di fair trade”.
Questo progetto è realizzato anche in collaborazione con l’associazione di Orna Akad, commediografa e pubblicista che vive a Tel Aviv. Orna è ebrea, e spiega che la convivenza nella sua famiglia ‘mista’ non è facile, ma è possibile. “Mi sono avvicinata al femminismo e alle donne palestinesi - racconta -, che per il 48% sono povere. Abbiamo dato vita a un centro di consulenze per il lavoro, per aiutare queste donne che venivano trattate molto male. Abbiamo fornito loro gli strumenti minimi per difendersi: abbiamo insegnato a leggere una busta paga e capire i loro diritti, per esempio. Poi abbiamo dato vita ad una coproduzione israeliana e palestinese di prodotti, dall'olio e ceramica decidendo che le lavoratrici avrebbero ricevuto la stessa retribuzione. In questi ultimi anni ben 750 donne si sono state avvicinate e ora provvedono alle loro famiglie. Abbiamo capito che la parità delle donne è importante”.
Tamara e Najwa piangono i loro cari, ma hanno avuto la forza di reagire facendo la scelta del dialogo e aderendo al Parents’ Circle.
Tamara Rabinowitz ha perso il figlio Idor, che era sotto le armi in Libano nel 1987. “So bene che il conflitto tra Israele e Palestina comporta molta violenza e rabbia, ma ci sono persone che lavorano in modo diverso. Dopo la morte di mio figlio ho preso coscienza che dall'altra parte c'era un’altra madre che stava piangendo il suo. Ho dovuto scegliere tra la rabbia e il fare un passo verso l'altro, ho scelto di cercare il dialogo, ho sorpreso i miei concittadini. Sono convinta che si possa cambiare la percezione dell’altro e che possiamo far capire che non c’è un nemico in ogni palestinese o israeliano”.
Najwa Saadeh, palestinese, ringrazia chi è presente per condividere il suo dolore. “Mia figlia Christine è stata uccisa da un soldato israeliano a Betlemme nel 2003 e tutta la mia famiglia è stata ferita nell’attacco. Siamo entrati nel Parents’ Circle e partecipiamo alle riunioni, che si tengono nella zona C, unico luogo in cui è possibile incontrarci. Sono circa 600 le famiglie che aderiscono e che vanno a parlare per spiegare come procede il conflitto. Pensiamo che il nostro lavoro sia molto importante per far cessare il conflitto”.
Sorridono e sembrano donne ‘normali’ queste operatrici che lavorano quotidianamente per il dialogo nelle diverse realtà in Israele e nei Territori palestinesi. In realtà Tamara, Najwa, Orna e Shata sono monumenti alla ragionevolezza e alla dignità che continua ad opporsi alla follia della violenza quotidiana che appare inarrestabile.
Il loro soggiorno in Italia, giustamente definita una “preziosa semina”, ha avuto parecchie tappe fino al 25 febbraio, con incontri e conferenze in diverse scuole ed istituti del paese, da Firenze a Torino passando da Arezzo e Piombino, e poi fino a Lugano in Svizzera.
L’Onorevole Khalid Chaouki, portando il suo saluto, ha parlato di una “contro-narrativa” sottolineando l’importanza di far conoscere l’esistenza di realtà positive, molto importanti “in un’Europa dove monta il pregiudizio e l’islamofobia”.
I racconti delle testimonial sedute una accanto all’altra toccano il cuore, nonostante la brevità e la traduzione che inevitabilmente attutisce l’impatto delle parole.
Ha ragione Shata Bannousa, palestinese e volontaria del Bethlem Fair Trade Artisans (BFTA): “ogni famiglia palestinese ha una storia da raccontare. Noi palestinesi siamo stati buttati fuori dalla sera alla mattina. Avevo solo 5 anni, ma ricordo tutto: la permanenza in Giordania, l’arrivo a Ramallah, le ruspe. Siamo abituati a vedere nelle città soldati israeliani armati fino ai denti ed è complicato capire la situazione, ci vorranno ancora molti anni”. Shata ha avuto delle opportunità, ha studiato a Betlemme e a Milano e oggi lavora in una organizzazione umanitaria, la BFTA, importante organizzazione che sostiene tutte le attività artigianali che putano sul riciclo. “Abbiamo dato vita a un progetto speciale che vede la collaborazione di israeliane e palestinesi. Il BFTA (www.fairtrade.org), premiato nel 2015, è l’unico soggetto che si occupa di fair trade”.
Questo progetto è realizzato anche in collaborazione con l’associazione di Orna Akad, commediografa e pubblicista che vive a Tel Aviv. Orna è ebrea, e spiega che la convivenza nella sua famiglia ‘mista’ non è facile, ma è possibile. “Mi sono avvicinata al femminismo e alle donne palestinesi - racconta -, che per il 48% sono povere. Abbiamo dato vita a un centro di consulenze per il lavoro, per aiutare queste donne che venivano trattate molto male. Abbiamo fornito loro gli strumenti minimi per difendersi: abbiamo insegnato a leggere una busta paga e capire i loro diritti, per esempio. Poi abbiamo dato vita ad una coproduzione israeliana e palestinese di prodotti, dall'olio e ceramica decidendo che le lavoratrici avrebbero ricevuto la stessa retribuzione. In questi ultimi anni ben 750 donne si sono state avvicinate e ora provvedono alle loro famiglie. Abbiamo capito che la parità delle donne è importante”.
Tamara e Najwa piangono i loro cari, ma hanno avuto la forza di reagire facendo la scelta del dialogo e aderendo al Parents’ Circle.
Tamara Rabinowitz ha perso il figlio Idor, che era sotto le armi in Libano nel 1987. “So bene che il conflitto tra Israele e Palestina comporta molta violenza e rabbia, ma ci sono persone che lavorano in modo diverso. Dopo la morte di mio figlio ho preso coscienza che dall'altra parte c'era un’altra madre che stava piangendo il suo. Ho dovuto scegliere tra la rabbia e il fare un passo verso l'altro, ho scelto di cercare il dialogo, ho sorpreso i miei concittadini. Sono convinta che si possa cambiare la percezione dell’altro e che possiamo far capire che non c’è un nemico in ogni palestinese o israeliano”.
Najwa Saadeh, palestinese, ringrazia chi è presente per condividere il suo dolore. “Mia figlia Christine è stata uccisa da un soldato israeliano a Betlemme nel 2003 e tutta la mia famiglia è stata ferita nell’attacco. Siamo entrati nel Parents’ Circle e partecipiamo alle riunioni, che si tengono nella zona C, unico luogo in cui è possibile incontrarci. Sono circa 600 le famiglie che aderiscono e che vanno a parlare per spiegare come procede il conflitto. Pensiamo che il nostro lavoro sia molto importante per far cessare il conflitto”.
Sorridono e sembrano donne ‘normali’ queste operatrici che lavorano quotidianamente per il dialogo nelle diverse realtà in Israele e nei Territori palestinesi. In realtà Tamara, Najwa, Orna e Shata sono monumenti alla ragionevolezza e alla dignità che continua ad opporsi alla follia della violenza quotidiana che appare inarrestabile.
Il loro soggiorno in Italia, giustamente definita una “preziosa semina”, ha avuto parecchie tappe fino al 25 febbraio, con incontri e conferenze in diverse scuole ed istituti del paese, da Firenze a Torino passando da Arezzo e Piombino, e poi fino a Lugano in Svizzera.
lunedì 20 febbraio 2017
"La coscienza femminle confusa"
“La coscienza femminile confusa” e la solitudine
delle donne al potere
di Rosaria Guacci
Luisa Muraro ha
chiamato apparente “coscienza femminile confusa” l’aver votato sì al recente
referendum costituzionale e avere nello stesso tempo tirato un respiro di
sollievo per la vittoria del no: avrebbe quindi votato due volte e i due voti
sarebbero ugualmente validi. «In questo caso», lei dice, «è piuttosto evidente
che l’obbligo di scegliere non è veramente democratico e non lo è neanche
costringersi all’astensione, come qualcuno ha suggerito di fare. Perciò mi sono
autorizzata a votare due volte, sì e no, ed entrambi i voti sono validi…». Il
suo ragionamento mi sembra un sollecitante paradosso filosofico che ha ricadute
politiche importanti – per politica intendendo la politica delle donne, che
assumo come l’unica valida. Le buone argomentazioni di Muraro si possono
leggere nel sito della Libreria alla voce Contributi; a me interessa in
particolare la questione della cosiddetta coscienza femminile confusa rispetto
a un non voler scegliere tra due quesiti mal posti – il sì o il no al
referendum costituzionale appena trascorso – di fatto scegliendoli entrambe,
quindi raddoppiando. Ben venga una coscienza siffatta, scrive Luisa e io
concordo. La doppia assunzione/esclusione di entrambi i pronunciamenti è buona
per me perché non voglio dover rispondere a due quesiti antitetici in un
processo esclusivamente binario: avrei voluto una terza o magari molte altre
soluzioni/situazioni in cui pronunciarmi. Inoltre – e qui sta per me il punto –
«l’obbligo di scegliere non era democratico». Molto vero soprattutto per le
donne. Credo che noi apparteniamo ancora alla “società delle estranee” di cui
scriveva Virginia Woolf nelle Tre ghinee. Certo, il problema non sta più
nel non poter entrare nelle biblioteche o nel dover subire destini imposti.
Come hanno scritto in tante a partire da Lia Cigarini in apertura della recente
redazione allargata di Via Dogana on line, le donne sono dappertutto, in ogni
comparto sociale, e ci stanno in posizione molto visibile ed esposta.
Soprattutto esposta, mi sembra. Spesso il potere che le donne esposte
rivestono, diverso dall’autorità femminile che intendo capace di circolare con
ricchezza e libertà, è una sorta di camicia di Nesso che le avvelena
costringendole, sempre seguendo il mito, a gettarsi in roghi che rischiano di
incenerirle: le polemiche circa la sindaca romana Virginia Raggi o la nuova
ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli sono sotto gli occhi e alla portata di
orecchio di tutte/tutti.
Raggi appare stretta in regole non sue, che contrastano con le sue decisioni, e Fedeli, in un mondo come l’attuale, meritocratico e alieno dalla promozione delle competenze squisitamente politiche che si ricercavano negli anni ’70, appare una ministra “non laureata”, alla lettera. Entrambe mandate allo sbaraglio dai loro movimenti e partiti; entrambe, come mi sembra, non sorrette da relazioni con le loro simili – che non cercano o che non trovano bell’e pronte e che comunque non dichiarano – che potrebbero servir loro a fare meglio. È vero, dà una bella energia vedere donne vincenti. Ma quella di alcune di loro, di noi, forse anche, è una vittoria effettiva o un impegno assunto in base a vincoli esterni ed estranei a sé che possono trasformarsi in catene? Di esempi ne ho fatti due ma si potrebbe farne altri ancora. Mi chiedo: di fronte a un mondo ancora cogente per regole precostituite all’affermazione delle donne – quando esse siano in posizione di forza dettate dall’esterno e forse non ancora in grado di dettare regole proprie – non sarebbe più proficuo lavorare ad accrescere credibilità, competenza, autorità seguendo i propri intuito ed esperienza e negandosi alla cooptazione? Dire in questo caso un “no” ben chiaro? Mi piacerebbe discutere di questo fuori da ideologia e idealizzazioni.
Raggi appare stretta in regole non sue, che contrastano con le sue decisioni, e Fedeli, in un mondo come l’attuale, meritocratico e alieno dalla promozione delle competenze squisitamente politiche che si ricercavano negli anni ’70, appare una ministra “non laureata”, alla lettera. Entrambe mandate allo sbaraglio dai loro movimenti e partiti; entrambe, come mi sembra, non sorrette da relazioni con le loro simili – che non cercano o che non trovano bell’e pronte e che comunque non dichiarano – che potrebbero servir loro a fare meglio. È vero, dà una bella energia vedere donne vincenti. Ma quella di alcune di loro, di noi, forse anche, è una vittoria effettiva o un impegno assunto in base a vincoli esterni ed estranei a sé che possono trasformarsi in catene? Di esempi ne ho fatti due ma si potrebbe farne altri ancora. Mi chiedo: di fronte a un mondo ancora cogente per regole precostituite all’affermazione delle donne – quando esse siano in posizione di forza dettate dall’esterno e forse non ancora in grado di dettare regole proprie – non sarebbe più proficuo lavorare ad accrescere credibilità, competenza, autorità seguendo i propri intuito ed esperienza e negandosi alla cooptazione? Dire in questo caso un “no” ben chiaro? Mi piacerebbe discutere di questo fuori da ideologia e idealizzazioni.
(www.libreriadelledonne.it,
22 dicembre 2016)
martedì 14 febbraio 2017
La celebrazione del 14 febbrailo
Un miliardo di voci contro la violenza su donne e bambine:
il 14 febbraio in Italia e nel mondo
le donne tornano a ballare nelle piazze. Voci dalle città italiane
inserito da Redazione NOIDONNE
IL 14 FEBBRAIO 2017 TORNA IN ITALIA E NEL MONDO ONE
BILLION RISING, UN MILIARDO DI VOCI CONTRO LA VIOLENZA SU DONNE E BAMBINE
Era il 2013 quando Eve Ensler, autrice del celebre “I monologhi della vagina”, lanciò in tutto il mondo una campagna rivoluzionaria, ONE BILLION RISING: il punto di partenza era la drammatica statistica per cui una donna su tre in tutto il pianeta sarà picchiata o violentata nel corso della propria vita; l’obiettivo era far ballare e manifestare un miliardo di persone nel mondo, il giorno di San Valentino, per denunciare quella violenza e affermare la volontà di porvi fine. L’enorme successo della manifestazione, con adesioni da oltre 200 nazioni, ha trasformato ONE BILLION RISING in un appuntamento annuale, il cui spirito battagliero ha ricevuto consensi crescenti aprendo un nuovo dibattito sui diritti, il razzismo, le disuguaglianze economiche e le guerre dichiarate sui corpi delle donne in tutto il mondo. Anche in Italia lo scorso anno 250mila persone hanno partecipato a oltre 150 eventi in tutta la penisola.
Quest’anno la parola d’ordine di ONE BILLION RISING è SOLIDARIETÀ: solidarietà CONTRO LO SFRUTTAMENTO delle donne, solidarietà CONTRO IL RAZZISMO E IL SESSISMO ancora presenti in tutto il mondo. Alcuni eventi recenti, come la manifestazione di Roma del 25 novembre e la marcia di Washington del 21 gennaio, hanno testimoniato ancora una volta la presenza di una consapevolezza e di un’energia straordinaria nella società civile, frutto del lavoro costante sul campo di attivisti, associazioni e istituzioni. ONE BILLION RISING vuole ribadire che non c'è nulla di più potente di questa solidarietà globale, di un corpo unico e coeso capace di far parlare un miliardo di persone con una sola voce.
LA SOLIDARIETÀ È LA NOSTRA RIVOLUZIONE!
“Dobbiamo abbandonare i
tentacoli delle nostre false sicurezze e interrompere il mondo così come lo
conosciamo. Sovvertire, lottare e danzare con tutte le nostre forze per
immaginare una vita al di là delle false comodità” (Eve Ensler). Non può
esserci rivoluzione senza solidarietà. Non possiamo invocare un cambiamento nel
sistema – cambiamento di mentalità, di cultura, di coscienza, dei valori, di
volontà politiche – attraverso azioni individuali e isolate. Solidarietà vuol
dire connettersi in maniera radicale.
Anche quest’anno One Billion
Rising torna nelle piazze e nelle strade come un grande momento di gioia
collettiva in cui avranno luogo flash mob, spettacoli, manifestazioni e eventi
dedicati alla sensibilizzazione e all’azione contro il fenomeno della violenza
su donne e bambine. Al momento (ma è una cifra in costante aumento) sono oltre
100 gli eventi programmati in tutta Italia: si parte già da sabato 11 febbraio
a Livorno, Monterotondo e Cittadella (PD), mentre domenica 12 a Fiumicino, alle
ore 11.00 in Piazza Grassi, è prevista una grande manifestazione con il
patrocinio del Comune. Martedì 14 febbraio, giorno di San Valentino, sono
previsti gli eventi più imponenti in tutta la penisola, da Milano (flash mob
danzante a Piazza della Scala alle 19.00) a Bologna (in Piazza Maggiore, flash
mob, parata e festa dalle 17.00 alle 22.00), da Trieste (una marcia partirà da
Piazza Goldoni alle 16.00) a Perugia (in Corso Vannucci la coreografia
dell’inno ufficiale Break the Chain in versione L.I.S), fino a Roma, dove alle
16.00 al Ponte della Musica avrà luogo un grande flash mob organizzato
dall’associazione Differenza Donna. Varie manifestazioni coloreranno anche
molte città nel Meridione – scuole, centri e piazze delle principali città in
Puglia (Bari, Taranto, Molfetta, Lecce) , Calabria (Cosenza, Catanzaro) e
Sicilia (Catania, Palermo, Siracusa, Marsala, Agrigento) - e continueranno
anche nei giorni successivi, il 18 febbraio a Biella e Vicenza e sabato 25 a
Napoli, dove a Largo Berlinguer dalle 11.30 alle 14.00 si susseguiranno
reading, flash mob e varie performance.
Anche quest’anno hanno aderito a ONE BILLION RISING
alcune delle maggiori associazioni italiane, tra cui Amnesty International
Italia, ArciLesbica, Centro di ascolto mobbing e stalking contro tutte le
violenze (UIL), CGIL, Differenza Donna, D.i.Re – Donne in rete contro la
violenza, Emergency, FIOM, FNASD - Federazione Nazionale Associazioni Scuole
Danza, Gi.u.li.a - Giornaliste Unite Libere Autonome, Nuovo Maschile, Terres
des Hommes, UDI – Unione Donne in Italia. Inoltre, forte di un crescente
consenso, questa quinta edizione consolida ancora di più la presenza di
istituti scolastici, insegnanti, genitori e studenti di ogni età – dalla prima
scuola dell’infanzia agli istituti secondari – uniti nell’impegno di creare una
cultura dell’uguaglianza e del rispetto fin dai primi passi dell’educazione
scolastica.
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