lunedì 25 luglio 2016


Diaconato femminile: un fiume carsico che emerge
Qualche sottolineatura e una nota mia. Vedi più giù.
 
Il proposito formulato da papa Francesco di prendere in considerazione la possibilità del diaconato femminile è risuonato sui mezzi di comunicazione di massa come una novità quasi assoluta e in questo modo l’ha percepito gran parte di coloro che non sono addentro alle faccende ecclesiastiche. Ma cosa c’è di veramente nuovo in questo tema che, a chi conosce un po’ di storia recente della Chiesa cattolica, appare in buona parte rispolverato? Per capirlo bisogna procedere da ciò che nuovo non è.
Da più di cinquant’anni si parla di diaconato femminile e la richiesta di affrontare la questione non è emersa come rivendicazione delle femministe, ma è partita dall’interno della Chiesa e dei suoi apparati. La si ritrova nelle consultazioni effettuate prima del Concilio Vaticano II. Tra i voti c’è anche quello di un italiano, il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, mons. Giuseppe Ruotolo, che propone l’istituzione del diaconato per entrambi i sessi. Ne hanno trattato Sinodi come quello dei vescovi del 1971 o quello delle diocesi della Germania del 1974, fino al Sinodo recente sulla famiglia dove l’argomento, sia pur marginalmente, è stato affrontato dal presidente della Conferenza episcopale canadese Paul-André Durocher. Insomma, non una novità e nemmeno appannaggio di figure per così dire progressiste come quella del cardinale Martini, subito tirato in ballo per i suoi interventi a favore del diaconato femminile, a partire da quello del 1994 al Congresso eucaristico di Siena. Diversi teologi, anche prima di Martini, si erano mostrati aperti a questa possibilità: Congar, Hunermann, Vorgrimler, Lehmann e poi lo stesso Kasper. Un bilancio della questione fu effettuato da Pier Sandro Vanzan in un articolo apparso nel 1999 su Civiltà Cattolica dal titolo “Diaconato permanente femminile. Ombre e luci”.
Nuova non è neanche l'idea di istituire una commissione ad hoc, dal momento che la Commissione teologica internazionale si è occupata dell’argomento ed ha prodotto nel 2003 il documento Il Diaconato: evoluzione e prospettive. 
Nemmeno il ricorso alla storia può definirsi una novità. Il succitato documento affronta già la tematica dal punto di vista storico, arrivando alla conclusione che, in base agli «elementi posti in evidenza dalla presente ricerca storico-teologica, spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione». Affermando, così, che il verdetto non è, e non può essere, affidato alla storia. 
In effetti si possono muovere alcuni rilievi, di metodo e di impostazione, al modo in cui si interroga la storia. Si cerca una parola dirimente sul passato e nello stesso tempo si va a cercare nel passato – e non solo nella Tradizione – la possibilità di fare o non fare qualcosa nell’oggi. Questo principio, in realtà, è alla base dell'idea stessa di istituire commissione storiche o storico-teologiche (non è un caso che vi siano state commissioni che si sono arenate o che hanno visto un rimescolamento dei loro membri, come nel caso della Commissione storica internazionale cattolico-ebraica). L’indagine storica, però, non ha ultime parole da dire perché è un cantiere permanentemente aperto, dove si lavora alle ipotesi senza presunte definitività. Essa offre elementi di intellegibilità del passato, ma non certezze. Le fonti non parlano esaustivamente e una volta per tutte e soprattutto, se avvicinate in prospettiva storiografica, non si possono attribuire ad esse pesi normativi diversi, se non per quanto attiene ai criteri di attendibilità delle fonti stesse. Per quanto concerne il diaconato femminile nella storia, questa realtà non sembra più messa in dubbio, ma le differenze si fanno enormi quando si tratta di individuarne le caratteristiche: esso viene, molto spesso, interpretato come realtà molto più ridotta e non sacramentale come il diaconato permanente maschile. Ci si accorge, purtroppo, che le fonti non di rado vengono soppesate in base ad una loro presunta maggiore o minore normatività e quelle fonti che attestano forme di diaconato femminile nel cristianesimo antico più simili, se non uguali, a quelle maschili, vengono considerate, non infrequentemente, di minore significatività. Molto interessante, ad esempio, è un rito di ordinazione diaconale, della Chiesa bizantina, risalente al IX secolo, studiato da Miguel Arranz e ripreso da Cloe Taddei Ferretti in un interessante studio sul tema, dal titolo Anche i cagnolini. L’ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica, in cui l’ordinazione femminile appare molto simile a quella maschile. Interrogando le fonti si resta anche colpiti dal fatto che la realtà del diaconato femminile sembra essere molto diversa per l’Oriente e per l’Occidente. Nell’Occidente, che va facendosi sempre più Romano, pare non esserci stato quasi per nulla spazio per il diaconato femminile. E questo direi che ci riporta al fatto che esistono anche diversità legate a culture e a modelli, a concezioni antropologiche riconducibili ad epoche e a aree geografico-culturali, fattori dunque storicamente condizionati.
Fin qui il vecchio. Veniamo adesso a ciò che c’è di nuovo. Di nuovo ci sono essenzialmente due cose: l’identità di chi ha rivolto l’interrogativo al papa e il modo di fare del papa stesso. Per quanto riguarda il primo elemento, direi che una sorta di fiume carsico è emerso in superficie. La richiesta è partita da un’appartenente all’Unione delle Superiore Generali, in un contesto di ufficialità e di rappresentatività, durante un’assemblea internazionale, ed è stata rivolta direttamente al papa. Quella voce non può dunque essere interpretata come una singola, magari estemporanea, espressione ma come una sorta di vox populi, di voce delle donne, in particolare di quel mondo femminile, il mondo delle religiose che, nonostante abbia manifestato nella storia incisività ecclesiale, azioni di emancipazione – penso, ad esempio, alla possibilità che la vita religiosa ha offerto alle donne di impegnarsi in attività non confinate nell’ambito familiare: nell’insegnamento, negli ospedali, nelle carceri – è sempre stato sotto tutela ecclesiastica maschile, umiliato nella sua dignità di componente ecclesiale. Il voto formulato al papa sale dunque dalle viscere del popolo delle religiose, si fa udibile, è una voce che, mediante l’amplificatore mediatico, viene ascoltata da tutti. Mi sembra un segnale importante; di solito quando si parla di come è cambiata la condizione delle donne nella Chiesa si pensa in termini di concessioni che alle donne sono state fatte e molto meno a ciò che le donne hanno ottenuto attraverso la loro iniziativa: non è questione di rivendicazioni o pretese; piuttosto di dignità, responsabilità e partecipazione.
N.B. Questa richiesta va bene per le religiose, ma le laiche comuni dovrebbero chiederlo non per presentarsi al popolo di Dio con una identità che le qualifica, bensì in quanto donne impegnate e preparate.  
Per quanto concerne il secondo elemento, il papa stesso, qui si riscontra un fattore di non continuità con prassi, protocolli e formalismi pontifici. Non vi è stato, infatti, a riguardo dell’istituzione di una commissione, alcun annuncio ufficiale, semplicemente la manifestazione di un consenso e di un intento. Il papa non ha fatto alcun cenno al documento sul diaconato elaborato dalla Commissione teologica internazionale, ma ha citato, come in conversazione, il suo vecchio amico professore e i colloqui con lui e questo è, quantomeno, singolare. Questo papa non teme di parlare a braccio, di riflettere ad alta voce, di esprimersi in maniera informale, prestando il fianco ai molti detrattori che ritengono questo atteggiamento inadeguato alla funzione e alla carica. I suoi “strappi” vengono non di rado interpretati come populismo, retorica e ammiccamento mediatico: potrebbero invece essere, come tendo a credere, innovazioni autentiche nell’interpretazione dell’esercizio del ministero petrino. Senza con questo pensare – come temono alcuni – a mutazioni dottrinali, siamo tuttavia di fronte a una maggiore disponibilità e apertura ai dinamismi interni alla Chiesa, indice di una docilità alla disinvolta semplicità dello Spirito. 

Anna Carfora è docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale 

martedì 5 luglio 2016

                   Dalla rete: PRIMO PIANO

Il viaggio insicuro del camper della polizia “Questo non è amore”

Per tre mesi la Polizia di Stato sarà impegnata con camper in quattordici province italiane con l’obiettivo di avvicinare le potenziali vittime della violenza di genere

inserito da Maddalena Robustelli


Al Viminale l’altro giorno è stato presentato il camper contro la violenza di genere, iniziativa rientrante nel progetto del Ministero degli Interni Questo non è amore, un autoveicolo con il quale si avvierà una campagna itinerante. Per tre mesi la Polizia di Stato sarà impegnata in quattordici province italiane, il primo ed il terzo sabato del mese, con l’obiettivo di avvicinare “le potenziali vittime, cercando di favorire l’emersione del fenomeno in un’ottica di prevenzione”, grazie ad un pool di esperti delle forze dell’ordine presenti nel camper, pronti a ricevere le eventuali testimonianze delle donne vittime di violenza sessuata. Dopo questo periodo di prova si tireranno le fila dell’esperimento ed alla luce dei risultati acquisiti il suddetto ministero valuterà l’opportunità di rendere il progetto valevole su tutto il territorio nazionale. Sono stati anche predisposti continui aggiornamenti sugli eventi collegati a tale iniziativa, da visionare sul sito della Polizia di Stato o su twitter con l'hashtag #questononèamore.
L’annuncio di questo progetto è stato pubblicizzato sugli organi di stampa e sulle reti televisive nazionali con interviste al ministro Alfano, alla presidente della Camera dei deputati Boldrini, nonché alla ministra con delega alle Pari Opportunità Boschi ed alla sindaca di Roma Raggi. Ma il clamore mediatico assegnato a tale evento in prima analisi stride con la realtà che in questi ultimi giorni è sotto gli occhi di tutti, ossia la chiusura di molti centri antiviolenza per mancanza dei fondi pubblici stanziati per le annualità 2015-2016. Il fenomeno della mancata erogazione dei finanziamenti pubblici cala la scure su quelli di Corsico, Pisa, Roma, Napoli e Palermo, solo per citarne alcuni. E dire che si tratta della quota del 20% sul totale delle erogazioni stabilite dalla legge 119/2013 sul femminicidio, perché la rimanente parte vede come destinatarie le Regioni che a loro volta avrebbero dovuto elargire i fondi a progetti individuati e finalizzati al contrasto della violenza di genere.
Già nel luglio del 2014, allorchè erano stati approntati i criteri di ripartizione dei finanziamenti, si erano levate voci di protesta per la scelta, prettamente politica, di attribuirne la parte più consistente alle Regioni, penalizzando in maniera rilevante i centri antiviolenza privati gestiti in modo tale da offrire servizi indipendenti alle donne in difficoltà che ad essi si rivolgevano. Invece di definire criteri qualitativi di assistenza, tali da individuare le strutture effettivamente idonee ad assicurare quel genere di tutela, si scelse allora di favorirne la nascita di nuove, al solo fine di ricevere i finanziamenti pubblici provenienti dal Fondo nazionale predisposto al riguardo. Si procedette successivamente alla conta numerica dei centri antiviolenza dichiarati tali, frammentando le risorse da distribuire, con la conseguenza di rispondere in maniera incongrua alla domanda avanzata dalle associazioni con comprovata esperienza nel settore. A ciò si aggiunge l’aggravante di computare e valutare allo stesso modo le istanze dei centri di prima accoglienza con quelle delle associazioni predisposte ad offrire assistenza continuativa e con le esigenze delle case rifugio.
Dal 2014 ad oggi si potrebbe dire che nessun controllo pubblico di qualità sia stato svolto sul lavoro messo in campo in tema di sostegno alle vittime di violenza di genere, se è vero, come è vero, quanto acclarato dall’organizzazione internazionale indipendente ActionAid, che tramite una sua piattaforma open DonnecheContano ha reso noto lo scorso novembre i risultati di una sua indagine al proposito. Ne risulta che solo sette amministrazioni locali fanno sapere in modo chiaro e trasparente come stanno utilizzando i fondi stanziati dal governo. Per cinque Regioni è stato possibile reperire la lista dei centri antiviolenza che hanno ricevuto o riceveranno i fondi stanziati per il biennio 2013/2014: Veneto, Piemonte, Puglia, Sardegna e Sicilia. Oltre che per queste Regioni, le liste sono disponibili per le due ex province di Firenze e Pistoia. Per altre amministrazioni, i dati sono deducibili reperendo altri atti amministrativi (Abruzzo) o per via del numero ridotto di strutture presenti (Valle d’Aosta e Basilicata). Per il resto delle Regioni, non è stato invece possibile reperire alcun dato. Se questa è la realtà, è evidente che ne discenda la necessità di una mappatura puntuale dei centri antiviolenza ed uno specifico riscontro sui fondi adeguati al loro funzionamento, dati da pubblicare sia sui siti delle Regioni che su quello del Dipartimento alle Pari Opportunità.
Accanto al dato inconfutabile della crisi a cui sono soggette le realtà di supporto alle vittime della violenza sessuata, c’è però un altro elemento che indurrebbe a ritenere poco giustificato il clamore generato sull’iniziativa del camper itinerante. Se sette su dieci delle donne morte di femminicidio avevano denunciato in maniera preventiva i soprusi subiti, ne discende che manca un anello tra il dichiararsi contro la violenza di genere ed il conseguente agire, come ha bene specificato un’amica di una delle ultime vittime, Bernadette Fella. “Come affrontare il problema della protezione di queste donne? Se a fronte di una denuncia, il magistrato non dispone il carcere -come sottolinea SOS Stalking- né gli arresti domiciliari, né altre misure, come il braccialetto elettronico, la tutela delle vittime è totalmente azzerata”. Proprio per il caso di Bernadette il Procuratore della Repubblica di Modena ha dichiarato che “non c’erano campanelli d’allarme” ben ridondanti, come se i denti rottigli con un pugno non avessero fatto alcun rumore nel cadere a terra. Mentre invece per il femminicidio di Enza Avino i giudici del Riesame non disposero gli arresti domiciliari per il suo aguzzino sul presupposto che “non vi era però ragione per non limitare al minimo i sacrifici imposti all’indagato, con l’applicazione di una misura che fosse la meno deteriore per la sua sfera familiare e lavorativa».
In Italia non c’è, quindi, “un vero e proprio processo di protezione dal momento della denuncia in poi- sostiene Titti Carrano, presidente di DiRe, rete che coordina in Italia 75 centri antiviolenza -, dovremmo avere un posto letto nelle case rifugio ogni 7500 abitanti ed un centro d’emergenza ogni 50.000 e invece a fronte di 5700 posti letto necessari ne possiamo contare solo 500”. Entrando poi nel merito dell’iniziativa del camper della Polizia di Stato la presidente Carrano precisa che occorrano interventi di largo raggio “per costruire azioni ed ottenere risultati, mai prescindendo dal confronto con le associazioni delle donne e con i centri antiviolenza che conoscono e fronteggiano questa tragedia per davvero”. Cosicchè al capo della Polizia, Gabrielli, che in occasione della presentazione ai media del progetto Questo non è amore ha avuto modo di sottolinearne lo scopo, ossia “di recuperare quel sommerso che il dato statistico non può cogliere”, si potrebbe ironicamente avanzare un suggerimento. Più che di un camper ci sarebbe bisogno di un sommergibile, capace di abissarsi nel cupo mare della violenza di genere per poi risalire in superficie con idee più chiare, ma soprattutto con fatti più stringenti in materia di effettivo contrasto a questo drammatico fenomeno sociale.

| 05 Luglio 2016