martedì 29 novembre 2016


 

Un uomo ombra semilibero

“ (…) concede a Carmelo Musumeci il beneficio della semilibertà consentendogli di prestare un’attività di volontariato presso una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, al servizio di persone gravate da handicap.” (Tribunale di Sorveglianza)

 

     Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita. Penso che più di credere a me stesso ho scelto di credere negli altri. E forse questa è stata la mia salvezza. Mi hanno notificato l’esito positivo della Camera di Consiglio sull’istanza della semilibertà. Uscirò dal carcere al mattino e rientrerò alla sera per svolgere, durante il giorno, un’attività di volontariato presso la Comunità Papa Giovanni XXIII.

Quando arrivo in cella con l’Ordinanza del Tribunale di Sorveglianza tra le mani mi gira la testa. Il mio cuore batte forte. Respiro a bocca aperta. Lontano da occhi indiscreti, appoggio la testa contro il muro e mi assale una triste felicità. In pochi istanti rivivo questi venticinque anni di carcere con i periodi d’isolamento, i trasferimenti punitivi, i ricoveri all’ospedale per i prolungati scioperi della fame, le celle di punizione senza libri né carta né penna per scrivere, né radio, né tv, ecc. In quei periodi non avevo niente. Passavo le giornate solo guardando il muro.

Poi ad un tratto scrollo la testa. Smetto di pensare al passato. Mi faccio il caffè. Mi accendo una sigaretta. E, dopo la prima tirata, medito che adesso dovrei smettere di fumare perché ora la mia unica via di fuga per acquistare la libertà non è più solo la morte. Alzo lo sguardo. Guardo tra le sbarre della finestra. Osservo il muro di cinta. Per un quarto di secolo ho sempre creduto che sarei morto nella cella di un carcere. Penso che una condanna cattiva e crudele come la pena dell’ergastolo, che Papa Francesco chiama “pena di morte mascherata”, difficilmente può far riflettere sul male che uno ha fatto fuori. Io credo di essere rimasto vivo solo per l’amore che davo e che ricevevo dai miei figli e dalla mia compagna.

Sono stati anni difficili perché non avevo scelto solo di sopravvivere, ma ho lottato anche per vivere. Proprio per questo ho sofferto così tanto. Non ho mai pensato realmente di farcela e forse, proprio per questo, ce  l’ho fatta.

Adesso mi sembra tanto strano vedere un po’ di felicità nel mio futuro.

Mi commuovo di nuovo. E il mio cuore mi sussurra: “Per tanti anni hai pensato che l’unica cosa che ti restava da fare era aspettare l’anno 9.999;  invece ce l’hai fatta! Sono felice per te … e anche per me”.

Quello che rimpiango maggiormente di questi 25 anni di carcere è che non ho ricordi dell’infanzia dei miei figli. Mi consolo pensando che adesso mi rifarò con i miei nipotini. Poi penso che senza l’aiuto di tante persone del mondo libero che mi hanno dato voce e luce, non ce l’avrei mai fatta.


 

 

 

Carmelo Musumeci

Novembre 2016

sabato 19 novembre 2016

I media e ipreti sposati


Preti sposati: conciliabile il ministero sacerdotale con adempimenti matrimoniali. I media rilanciano il tema, spazi su Rai Uno e Canale 5 Nella Bibbia le lettere di Paolo fanno riferimento ai preti sposati specialmente 1Tm 3,2ss e Tt 1,6 ss.

Roma, 11/11/2016 - 08:55 (informazione.it - comunicati stampa - varie) Viene recepita nella tradizione l’analogia posta da tali lettere tra governo della casa e governo della Chiesa. Una buona capacità coniugale e parentale è un buon indizio della capacità di governare la famiglia ecclesiale. In qualche modo la logica delle lettere pastorali sembra indicare che i preti sposati mostrano il carattere familiare della comunità ecclesiale. Al punto che un criterio di discernimento in ordine alla capacità di governo del candidato al presbiterato è proprio la sua capacità di essere un buon marito e un buon padre.

Anche i preti cattolici hanno avuto la possibilità di avere moglie, ma solo se di provenienza anglicana. Possono tenere famiglia e dei figli. È quanto affermò nel 2009 la speciale Costituzione Apostolica varata da Papa Ratzinger.

Il Movimento internazionale dei sacerdoti lavoratori sposati non accetta la regola che proibisce ai preti sposati cattolici romani quello che ha concesso e concede ai nuovi entrati sacerdoti anglicani. Una disuguaglianza difficilmente sanabile, trattandosi per loro non di una sottigliezza squisitamente teologica ma di un problema, come si dice, di carne e d’ossa.

II celibato non è un dogma. E mai nella storia ne è stata rivendicata l'origine divina. Nella Chiesa occidentale si è affermato più per ragioni pastorali o di opportunità, che per ragioni teologiche e dottrinali. In certi periodi storici, infatti, era meglio non aver a che fare con i figli dei preti, per evitare che reclamassero diritti ereditari sui beni ecclesiali. La Chiesa, quindi, potrebbe un giorno decidere diversamente da quanto avviene oggi. Non l'ha fatto finora, sebbene se ne sia dibattuto, a lungo, in più occasioni. Ma il discorso non è affatto chiuso. Anzi, esigenze pratiche come il calo numerico dei preti in Europa e in altre parti del mondo, potrebbero riaprire la riflessione, in vista della riammissione nelle parrocchie dei preti sposati che hanno un regolare percorso canonico di dimissioni, dispensa dagli obblighi del celibato e matrimonio religioso.

La puntata di #PomeriggioCinque su Canale5 del 7 Novembre 2016 (visibile online http://www.video.mediaset.it/video/pomeriggio_5/full/lunedi-7-novembre_661866.html) ha affrontato anche il tema dei preti sposati: don Giuseppe Serrone e Albana Ruci invitati in trasmissione hanno perso la pazienza subito dopo la ricostruzione artificiosa della loro storia, ricostruzione che ha indirettamente suggerito una storia tra la coppia precedente alle dimissioni dal ministero pastorale.

Albana ha alzato la voce in difesa delle donne. Il titolo che passava in al momento dell'inizio dell'intervista era errato rispetto al fatto dell'innamoramento di don Giuseppe. "Non siamo stati mai amanti prima delle mie dimissioni. Nel 2002 questa storia era stata già chiarita e ora a distanza di 14 anni siamo stati nuovamente in parte diffamati".

Albana e Giuseppe sono impegnati da anni per i diritti civili e religiosi delle donne e delle famiglie dei sacerdoti sposati e si battono per la riammissione al ministero dei preti sposati.

Nella puntata la D'urso aveva affermato che Albana e Giuseppe avevano vissuto insieme da soli in canonica prima delle sue dimissioni, suscitando la rabbiosa e giusta reazione di Albana che in passato era stata oggetto di un triste episodio di discriminazione quando alcune persone (un adulto e dei minorenni) le avevano lanciato contro delle pietre mentre si trovava a Chia (Frazione di Soriano nel Cimino in provincia di Viterbo).

Il 5 Novembre 2016 don Giuseppe e Albana erano stati protagonisti in studio a Rai Uno ospiti di #ParliamoneSabato con Paola Perego, che invece aveva ricostruito correttamente la storia delle dimissioni e del matrimonio di don Giuseppe (ecco il link alla trasmissione http://www.raiplay.it/video/2016/10/Parliamone-Sabato-1596014b-91b7-4f87-877f-98c3edf90c43.html).

 

Recentemente anche il TG4 (puntata del 13 Settembre 2016) aveva raccontato la storia (visibile da qui https://www.youtube.com/watch?v=lRetKR4UjSw).
Nel 2003 "La vita in Diretta aveva affrontato il tema della storia di don Giuseppe e Albana che avevano fatto una scelta trasparente e coerente: "Non avendo avuto una doppia vita come prete dopo le dimissioni - ha affermato don Giuseppe - , ho intrapreso un percorso che mi ha portato alla dispensa dagli obblighi del celibato e al matrimonio religioso. Con un percorso regolare previsto dal codice di diritto canonico siamo ancora dentro la Chiesa - ha concluso don Giuseppe - . Aspettiamo il cambio della legge ecclesiale che consenta la riammissione al ministero dei preti sposati che hanno un regolare percorso. La nostra questione, cioè la riammissione dei preti sposati, è un'altra questione rispetto al celibato dei preti e al matrimonio dei preti. Il celibato è un valore per chi lo sceglie e lo vive coerentemente".

venerdì 11 novembre 2016

Il Vangelo secondo Leonard Cohen


B. Salvarani Il Vangelo secondo Leonard Cohen

 
La musica pop, non è una novità, ha visto una gran quantità di autori cimentarsi con il tema del rapporto con la religione: campo alquanto difficile e insidioso, dove le trappole della banalità e del cattivo gusto sono sempre in agguato e non è sempre detto che l’immediatezza della comunicazione – qualità importante per una canzone – riesca a coniugarsi con la complessità dell’argomento.
 
  1. Ci sono alcuni artisti, però, che hanno saputo scavalcare brillantemente gli ostacoli trattando con un mezzo apparentemente facile e popolare come la canzone le tematiche proposte dai testi sacri; ce ne sono altri, in misura minore, che ne hanno felicemente fatto un fondamento della loro poetica in musica, arrivando al cuore del proprio pubblico. Tra questi c’é sicuramente Leonard Cohen, scomparso in questi giorni a ottantadue anni, a mio avviso il più significativo per esiti artistici e popolarità planetaria sotto questo profilo, la cui autodefinizione presente in The future (1992) – “Io sono il piccolo ebreo che ha scritto la Bibbia” – non è per niente esagerata o fuori posto. Si badi: i suoi testi sono generati dalla Bibbia, più che ispirati a essa, ma il testo sacro alla tradizione ebraica e cristiana non è scelto in conseguenza di una presa di posizione fideistica. La Scrittura è una presenza immanente alla poetica coheniana, esattamente come il Grande Codice è la pagina sorgiva dell’intera cultura occidentale.
 
“Mi piace la compagnia dei monaci e delle suore e dei credenti ed estremisti di ogni genere – ha detto lui una volta – e mi sono sempre sentito a casa tra le persone di quella fascia. Io non so esattamente perché, so che rende solo le cose più interessanti…”. Ne Il vangelo secondo Leonard Cohen (Claudiana 2010), da parte nostra, mia e del compagno di scorribande musicalteologiche Odo Semellini, abbiamo cercato di analizzare la dimensione del sacro nell’opera dell’allora settantasettenne artista canadese, prendendone in esame, oltre al canzoniere, anche le raccolte di poesie, i romanzi e le interviste rilasciate nel corso degli anni. Siamo infatti convinti che il poeta di Montréal ha saputo fare del suo percorso spirituale e religioso un argomento degno di essere cantato, raccontato senza mai scadere nell’autocelebrazione, sapendolo arricchire anche della complessità del rapporto non solo tra l’uomo e Dio, ma anche tra l’uomo e la donna, cogliendo perfettamente le contraddizioni di tale rapporto, che scandisce quotidianamente l’esistenza di ognuno di noi. Al tempo stesso, come scrive Alberto Corsani su Riforma del 21 maggio 2010, i riferimenti biblici nelle canzoni di Cohen “fanno parte dell’humus in cui il cantautore è cresciuto, costituiscono il suo retroterra, senza esaurirlo e senza impedire che le sue canzoni vengano interpretate a prescindere dalla fede… Cohen ci porta alla soglia di un paesaggio sconfinato, che forse avremo il privilegio di scoprire; ben sapendo che perfino a Mosè fu negato di vedere compiutamente la Terra promessa”. Di questa peculiarità si era ben accorto il nostro Fabrizio De André, che non a caso tradurrà quattro brani di Cohen (tra cui la famosa Suzanne), e cui abbiamo dedicato un capitolo, in cui sono messe a confronto le tematiche etiche e religiose del cantautore genovese e del collega d’oltreoceano. Nel libro abbiamo voluto inserire un altro faccia a faccia illustre tra Cohen e Bob Dylan, per certi versi il suo corrispettivo statunitense. Ma anche la sua vicenda buddhista: nel 1993, dopo la promozione mondiale del suo album The future, egli decideva di ritirarsi al Mount Baldy Center, un monastero zen sorto nel 1971 e situato a duemila metri di altezza, e di sostarvi per oltre sei anni con il nome di Jikan, il silenzioso. Pur conservando il suo essere ebreo di fondo, si badi, quella che chiama la religione di famiglia… Il Nostro non è stato certo un autore prolifico – appena quattordici album in studio in un quarantennio di carriera, compreso l’appena uscito You want it darker – ma ha saputo suscitare l’ammirazione di diversi suoi colleghi (Bono degli U2 e Jeff Buckley, tanto per fare solo un paio di esempi notevoli) che lo hanno omaggiato con un numero pressoché sterminato di cover. Su tutte, la celeberrima Hallelujah, titolo che allude alla preghiera di lode a Dio nella liturgia ebraica, che ha fatto scorrere i proverbiali fiumi d’inchiostro e registrato una serie pressoché infinita di reinterpretazioni. Cohen è riuscito a raccontare come pochi il suo tempo cercando, come ha sottolineato Gianfranco Ravasi su Il Sole 24 ore del 1° settembre 2010, “di intrecciare nel suo pensare, scrivere e cantare, spirito e corpo, mito e storia, mistica e amore, sacro e profano, ma soprattutto Dio e uomo, avendo sempre accesa nel suo cielo la stella della Bibbia”. E, aggiungo, raccontando le inquietudini umane alla luce di una fede che, proprio perché finita e imperfetta, ha saputo affascinare generazioni di fedeli ascoltatori. Perché le domande sull’esistenza sono le stesse per tutti, e le risposte che ha provato a dare quello che mi piace definire il canadese errante, così pregne di armonia e bellezza, possono servire, anche solo in parte, a noi tutti. Perché, come dice lui, “ogni canzone che ti consente di dare via te stesso è una buona preghiera”.

mercoledì 2 novembre 2016

E' morta Tina Anselmi

Grazie, partigiana Gabriella e Madre della Repubblica

È morta la notte scorsa Tina Anselmi, prima donna ministra della Repubblica. Il ricordo di Livia Turco

inserito da Tiziana Bartolini


È morta la scorsa notte all’età di 89 anni e rimarrà nella storia della nostra Repubblica come una figura limpida di donna che ha interpretato l’impegno politico a favore delle donne e per la libertà.
Tina Anselmi - nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo del 1927 - è stata la prima donna nominata Ministra in Italia: nel 1976 nel governo Andreotti ha guidato il Dicastero del lavoro e della previdenza sociale e tra il ‘78 e il ’79 quello della Sanità. Sua la firma della legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro per accesso, carriera, retribuzione (L. 903/1977); il suo nome è legato anche alla riforma che introdusse il Servizio Sanitario Nazionale (L.833/1978). Nel 1981, è stata nominata presidente della Commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2, che ha terminato i lavori nel 1985. (biografia)
“Nel 1987 ero una giovane che entrava per la prima volta in Parlamento insieme a tante altre donne del Partito Comunista: avevamo vinto la battaglia che con la Carta delle Donne puntava ad ottenere il 30% della presenza femminile. Eravamo tante, giovani: l’emiciclo per metà era colorato e per metà grigio. Ho il ricordo Tina Anselmi che, venendomi incontro con un sorriso accogliente, mi disse ‘ma come avete fatto ad essere così tante, come siete state brave, adesso le cose cambieranno siete così tante e giovani..’. Ed effettivamente nacque un confronto con le donne della D.c.”. A parlare è Livia Turco, che ci ha consegnato un ricordo di Tina Anselmi anche sul piano umano. “Quando era Ministra io ero una giovane militante del P.c.i. e l’ho conosciuta personalmente nella sua ultima fase politica. Teneva molto al dialogo e, anche se erano avversarie politiche, aveva un rispetto profondo per le donne comuniste: per Adriana Seroni, per Giglia Tedesco. La stima con Nilde Iotti era reciproca, infatti quest’ultima la volle presidente della Commissione P2. La ricordo poi negli ultimi anni, non era più parlamentare ma veniva a Montecitorio per tenersi informata; sempre con quel sorriso coinvolgente, quella amabilità e un’attenzione autentica: parlando ti guardava dritta negli occhi. Tina Anselmi è stata una grande madre della nostra Repubblica, a partire dal suo impegno nella Resistenza…. la partigiana Gabriella… Nel suo libro scritto con Anna Vinci racconta come decise di diventare partigiana dopo che i nazifascisti obbligarono gli studenti e le studentesse del suo istituto magistrale ad assistere all’impiccagione di 43 giovani. La sera stessa parlò con il parroco del trauma che aveva vissuto e decise di diventare partigiana, ispirandosi al profeta Gabriele da cui prese il nome. In quel libro scrive ‘non sarei stata una partigiana qualunque, se ci fosse stata la necessità di imbracciare il fucile lo avrei fatto’. Ecco, fin da giovane lei seppe scegliere la parte con cui schierarsi”. E non doveva essere facile per una giovane degli anni Quaranta, cresciuta con una mentalità cattolica, prendere una posizione così netta e rischiosa. “Sì, è importante sottolineare questo aspetto. Furono tante le giovani che non ebbero dubbi anche se non era facile maturare una posizione contro un fascismo che era pervasivo, ma tutto fu chiaro quando si comprese che c’era in ballo la negazione della libertà. Lei capì da subito che le donne dovevano essere al centro e, da cattolica, lottò per il diritto di voto alle donne”. Uno sguardo proteso verso il futuro, il suo. “È stata una donna speciale: non possiamo dimenticare la posizione di arretratezza delle donne in quegli anni, l’Italia era un paese arretrato economicamente e anche le leggi rispecchiavano una cultura patriarcale. Decidere di esserci in prima persona per dire alle donne che la loro vita doveva cambiare era una scelta forte. Lei maturò la consapevolezza che le donne per essere madri di famiglia non dovevano rinunciare alla loro libertà nell’ambito del mondo cattolico e facendo riferimento a Jacques Maritain, non è un caso se la sua scelta di diventare partigiana passa attraverso il parroco del suo paese.. sono elementi che testimoniano il suo costante riferimento alla parte del mondo cattolico che si è fatto interprete dei fermenti di innovazione presenti nella società”.
I funerali saranno celebrati venerdì 4 novembre nel Duomo di Castelfranco Veneto.

Ognissanti e commemorazione dei defunti












Ognissanti e commemorazione dei defunti: una scossa alla fede
Cristiana Dobner
31 ottobre 2016
Agenzia Sir


[[in fondo la mia nota personale]]

Quel Sepolcro, che denominano Santo, nel mistero di fede è compresente ad ogni tomba, ad ogni cimitero e l’energia del Risorto circola su quello che sembra uno scenario immobile, tagliato fuori ed espulso dal contesto di vita, effondendo una luce che non solo illumina ma anche riscalda i cuori


Una scossa alla nostra fede si ripropone ogni anno al varco dei mesi di ottobre e novembre: Tutti i Santi e i Defunti.

La fede è messa alla prova perché la rimozione della morte è naturale e corre sul filo del fluire della nostra vita quotidiana. Progettiamo, pianifichiamo e speriamo di raccogliere esiti e frutti.

Del tutto normale, siamo disposti a dirci. Tuttavia facciamo il conto senza l’oste.

Non è quella spada di Damocle che può piombarci addosso all’improvviso e tagliarci fuori dal tempo e dalla storia.

Non è neppure il filo tessuto dalle Parche: l’ultima attende le giunga fra le mani per darvi un bel taglio e precipitarci nel nulla.

Fosse così o solo così la rimozione avrebbe il sapore della correttezza e bisognerebbe coltivarla. Rimbalzerebbe però un altro quesito: perché mettere al mondo dei figli? Per inserirli in un meccanismo distruttivo che logora i giorni e toglie il fiato?

 

La fede, cioè l’Amen che la persona pronuncia quando prega o riceve i sacramenti, dona un’altra prospettiva che non scansa, evita o seppellisce i problemi e le difficoltà ma conferisce loro una capacità creativa che avvolge tutto e lascia promanare la pace.

 

Il Misericorde ha fatto irruzione nella storia, si è donato completamente, ci ha creati perché rendessimo ancora più bella la sua creazione, perché stringessimo fra di noi legami di fraternità. Perché fossimo certi di camminare da pellegrini, diretti al Suo Volto.

Quando entriamo in un cimitero non dovremmo guardare alle lastre tombali come ad un coperchio ormai chiuso e sigillato su di un’esistenza, di cui, peraltro, ben presto si dimenticano gli eventi, i successi e gli insuccessi.

 

Lastre ed epigrafi dovrebbero riportare alla nostra memoria e alla memoria della fede un dato che si dovrebbe palpare nell’aria: chi ha chiuso gli occhi alla storia, li ha chiusi aprendoli sul quel mistero che siamo stati chiamati a conoscere in vita.

 

Dire Amore non è uno spreco di parole ormai sporcate da vicende dai toni turpi e oscuri. Dire Amore significa che ogni tomba sprigiona una forza, un’energia che ci investe e ci richiama a valori perenni, a opzioni che lasciano un segno invisibile nella storia dei potenti e dei magnati che sembrano gestire tutta l’esistenza.

Segno che la fede sa cogliere, sa fare proprio e rendere vitale.

Amore significa gratuità, servizio, disinteresse. Significa riconoscersi fratelli, tutti insieme animati dal desiderio del bene comune.

 

Camminare fra le tombe può suscitare un sentire nostalgico per i volti di chi nella nostra storia ci ha generato, accompagnato stando al fianco con tutto l’amore che ha potuto donare.

Può però suscitare un sentimento più profondo e liberante: riallacciare un legame che trapassa, che non mente, che non si esaurisce perché affonda in Dio stesso.

Ormai immersi nel grembo del Padre chi ci ha lasciato è diventato potente canale di grazia, di amicizia vera.

 

La tomba quindi non può essere luttuosa, terrificante.

Ad ogni tomba è sottesa quella tomba che ha racchiuso il Corpo del Salvatore che ci ha promesso vita eterna.

 

Quel Sepolcro, che denominano Santo, nel mistero di fede è compresente ad ogni tomba, ad ogni cimitero e l’energia del Risorto circola su quello che sembra uno scenario immobile, tagliato fuori ed espulso dal contesto di vita, effondendo una luce che non solo illumina ma anche riscalda i cuori. Parla di quella dimensione che sappiamo ormai essere dei santi che lodano Dio perennemente, in una gioia reciproca resa trasparente, senza quelle opacità che hanno caratterizzato la vita e i legami terreni.

Non è una proiezione magica o scaramantica per richiama antichi riti ancestrali, è ben di più.


È la scelta di fondo su cui poggia ogni nostra successiva scelta finché muoviamo, passo dopo passo, su quel sentiero che ci conduce in vetta: al Volto di Dio, Creatore e Padre, al Figlio che, con la sua morte, ha dato un senso al nostro lasciare la terra per consegnare in assoluta fiducia il nostro respiro e transitare all’eterna Luce.



 
NOTA PERSONALE
E’ bella questa convinzione della Dobner, derivata dalla fede, che la morte sia un passaggio verso la Luce che non si spegnerà mai.
Ma io ho altre parole perché la fede è il mio sostegno nell’oggi. Il domani connesso con l’eternità non entra nelle mie categorie mentali impastate di tempo.
La morte è, mi impegno che sia, un compimento nell’oggi in cui scavo momento per momento. Nessuno sa che cosa sia l’eternità.
La mia fede quel giorno della fine del tempo sarà una consegna, una supremo affidamento in seno al Creatore.
Un’immagine traduce il mio atteggiamento nei riguardi della morte: quella del bimbo abbracciato alla mamma e sorride….
Un’immagine che riproduce ciò che la nostra ragione non sa spiegare.
In quel sorriso annegano ansie, paure, noia, stanchezza, dolori…. tutto tutto tutto.
Posso augurarvi di condividere i miei sentimenti?
Ausilia