Recensione/ E ora
dove andiamo?
Il Medio Oriente
salvato dalle donne
Buone notizie dal Medio Oriente. Nel Libano eternamente
dilaniato tra mille fazioni è nata una regista che maneggia i generi più
esplosivi e le trovate meno ortodosse con leggerezza da coreografa e mira da
lanciatore di coltelli. Si chiama Nadine Labaki e qualcuno si ricorderà di lei
per Caramel, la commedia ambientata in un salone di bellezza che rivelò il suo
talento (e la sua grazia, Labaki è anche attrice, qui fa la padrona del bar).
Stavolta però la 37enne scoperta a Cannes compone un’irresistibile requisitoria
per la pace mescolando gli ingredienti più disparati con sfacciataggine,
inventiva, felicità non comuni.
E ora dove andiamo? si apre infatti con una memorabile scena
da tragedia greca - un gruppo di donne nerovestite avanza battendosi il petto e
quasi danzando in un paesaggio desolato - ma presto si trasforma in qualcosa di
completamente diverso. Un’indiavolata commedia rusticana, parlata e qua e là
cantata in arabo. Un western mediorientale in cui le donne hanno il ruolo dei
buoni e gli uomini quello dei cattivi. Una favola con momenti musical
ambientata in un paesino dove cristiani e musulmani convivono in naturale e
precaria armonia. Ma solo perché mogli, madri, figlie, amiche, sorelle, si
dannano anima e corpo per nascondere o smussare ogni possibile motivo
Perché c’è sempre qualcuno, da qualche parte, che attacca
una chiesa o una moschea, e il contagio viaggia alla velocità della luce,
ovvero della tv, visto che anche lassù è arrivata un’antenna parabolica più
ecumenica di campanili e minareti. Il paese infatti è circondato di campi
minati, difficoltà e pericoli sono pane quotidiano, l’orrore è sempre in
agguato, senza distinzioni di religione. E perché nei maschi non si riaccenda
la violenza le donne sono pronte a tutto. A mentire, a truccare la statua della
Madonna, a tollerare gli scherzi più scemi e i flipper più gaglioffi, perfino a
assoldare compiacenti spogliarelliste russe infiltrandole come agenti segreti
nella comunità maschile.
Anche se l’idea più bella (e molto mediorientale) di questa
strategia di pace non si può raccontare senza sciupare un film che vive di
inventiva, di libertà, di salti di tono. E del piacere contagioso con cui
Labaki dirige un cast folto quanto colorito mescolando attori e non (ognuno
troverà i suoi beniamini, noi abbiamo un debole per la madre del ragazzo
sfortunato e per la coppia formata dal sindaco e da sua moglie, una signora
trovata in loco che ha la grinta e il fascino di una regina delle scene).
Generosità non significa perfezione, qualcosa magari si poteva limare. Ma tanta
energia è una benedizione. Se c’è un film che merita di diventare il simbolo
delle primavere arabe (dei loro sogni), è questo.
(Da Il Messaggero.it)
**************
Afghanistan: Libertà
duratura
Il numero 165 della Rivista GUERRE&PACE è interamente
dedicato all’Afghanistan, nel decennale dell’occupazione USA-NATO. Gli articoli
sono stati scritti da molte di noi del CISDA (Patrizia Fiocchetti, Simona
Cataldi, Cristiana Cella, Graziella Longoni), ma sono stati pubblicati anche
contributi delle Associazioni afghane. Ne è venuto fuori un ottimo lavoro, che
abbraccia i diversi aspetti della tragica realtà afghana, in una prospettiva
nuova. Dall’Afghanistan, e sempre più spesso in occidente, ci viene chiesto di
percorrere una terza strada, di uscire dagli schemi imposti dall’occupazione,
di sostenere chi viene messo a tacere continuamente perché non funzionale alle
logiche di governo e di occupazione: "le organizzazioni democratiche, in
particolare delle donne, che si oppongono da sempre al fondamentalismo talebano
e dei signori della guerra e alla presenza delle truppe Nato e alla loro
guerra, cercando di costruire un Afghanistan diverso"
[Nota personale: altre notizie sull'argomento sono scoraggianti, Ausilia]
********
Commercio equo per
tutti.
Facile a dirsi; un tempo e parzialmente ha funzionato.
C’è un grande pericolo: le grandi imprese per loro natura e struttura dei mercati non
potranno fare altro che imporre le proprie politiche commerciali, che saranno
tanto più sostenibili quanto più convenienti economicamente. Ed accettare
politiche di liberalizzazione dei mercati, INVECE DI UNA LORO PROGRESSIVA
RI-REGOLAMENTAZIONE, che, necessariamente andranno a sostenere i più forti
sacrificando le comunità più piccole e la stabilità del pianeta. Ecco perché in
Messico chiedono un forte ripensamento non solo al movimento statunitense, ma
anche a quello mondiale.
Forse sarebbe opportuno ricominciare a parlarne, senza
illusioni e senza demordere dal tentare il nuovo.