sabato 28 febbraio 2015

a) L. Manicardi - S. Natoli Dialogo sulla felicità
 

Più di duecento persone hanno partecipato il 20 febbraio 2015, al Dialogo sulla felicità tenutosi nell’Aula Magna del Seminario vescovile di Nola. Due gli illustri relatori: il docente di filosofia Salvatore Natoli e il vicepriore della Comunità di Bose, Luciano Manicardi. Pur guardando alla felicità da prospettive diverse, sono emersi molti punti di contatto tra le posizioni dei relatori. Entrambi hanno rilevato infatti che nel senso comune la felicità sia percepita come qualcosa che ci tocca per alcuni attimi ma che non ci appartiene. Di essa si fa infatti esperienza in modo sentimentale, vivendola quindi nei termini di intensità e di labilità insieme. 
 
La felicità, illusoria ed effimera 
Come ricordato dal professor Natoli, questa visione superficiale della felicità come illusoria ed effimera espansione di noi stessi sembra essere patrimonio comune all’umanità di ogni tempo. L’analisi etimologica delle parole tramite le quali le diverse lingue esprimono il concetto di felicità, denuncia infatti l’idea ricorrente di un benessere improvviso dovuto al caso. Platone, per esempio, nel discorso sulla felicità partiva da Afrodite adottando il modello orgasmico del culmine e della caduta. Agostino di Ippona, che pure vedeva nella felicità la ragione del filosofare, la definiva come raptim quasi per transitum. Mentre secondo Freud la felicità non stava tanto nel momento dell’eccitazione ma nella tregua della pulsione.
 
La felicità tra Cristianità e Cristianesimo 
Natoli, d’accordo con Manicardi, a riguardo distingue nettamente tra Cristianità e Cristianesimo. Ovvero tra la felicità della visione cristiana e quella che si sarebbe invece imposta nel mondo cristiano. La Cristianità avrebbe infatti relegato la felicità al mondo ultraterreno rendendo così meno vivibile quello terreno. Il modello a cui guarda invece Natoli è quello greco, a partire da Aristotele che considerava la felicità come il fine della vita. Per l’uomo greco la felicità era possibile e risiedeva nella virtù. Non nella virtù castrante che avrebbe caratterizzato la Cristianità nell’idea del virtuoso infelice e del trasgressivo gaudente, bensì nell’ars vivendi: l’arte del vivere che appartiene ad ogni uomo. Il greco ascoltava la voce del suo daimon e faceva proprio la massima delfica del Conosci te stesso. In questo modo conosceva le sue potenzialità e imparava a trarsi fuori dalle difficoltà. La felicità non era quindi premio delle virtù ma risiedeva nell’esercizio stesso di queste ultime. L’uomo greco era l’autore della propria realizzazione, l’artista della sua esistenza. 
Gesù ha vissuto una vita felice? E’ questa la provocazione che guida invece l’intervento di Luciano Manicardi. Anche secondo lui, riprendendo un’affermazione di Adorno, la felicità non si possiede ma si è in essa. Anche il monaco di Bose parte dall’analisi linguistica rifacendosi però all’origine indoeuropea della parola “felicità” che rimanda alla fecondità, al dare frutti. Da questo punto di vista, quella di Gesù Cristo fu senza dubbio una vita felice. E infatti è la Scrittura stessa ad attestarlo. Il Vangelo di Luca riporta il trasalire di gioia di Cristo nel ricordare la preferenza divina per i piccoli rispetto ai dotti e ai sapienti (Lc 10, 21-24). La sorgente della felicità di Gesù era quindi la relazione col Padre nella quale erano però compresi anche i discepoli. Anche per Manicardi, come per Natoli, la felicità è sempre inclusiva e consiste nel donare e nel donarsi. Se però per il filosofo la questione del dare è più problematica (cosa dare all’altro? Come capire cosa davvero gli serve? Come donare senza rischiare di invaderlo?), per il monaco l’esempio di Cristo è liberante. Quello di Gesù è infatti simultaneamente un dare tempo, ascolto e presenza. È un parlare che ascolta e che quindi fa emergere l’altro. L’insegnamento secondo cui c’è più gioia nel dare che nel ricevere (Atti 20, 35) è comprensibile solo nella prospettiva delle beatitudini, dove il rovesciamento del concetto mondano di felicità ha esiti apparentemente paradossali.
 
Il segreto della felicità 
Se la felicità è donarsi, gli esatti contrari sono l’invidia e la concupiscenza che schiaccia gli altri e se ne serve. Entrambe queste cose impediscono la felicità propria e quella altrui, perché fare male è anche farsi male. In conclusione, per entrambi i relatori la felicità sta nella semplicità e nella bontà di cuore. Nel sapersi meravigliare delle piccole cose, guardando le cose ordinario in modo straordinario e mantenendo sempre una giusta relazione (che non è mai il possesso) con tutto quello che ci circonda.
 
Due miei punti di vista:
1) Gli impiccati sono dei di-sperati che cercano l’unica via di uscita che ritengono di poter utilizzare; e non sono solo i condannati in prigione: quel che fa raccapriccio è il fallimento di uno stato che vendica la colpa e non offre la via della redenzione.
2) Opto per la felicità feconda (come suggerisce l’etimologia del termine): l’esistenza terrena è ben triste se serve soltanto per nascere-crescere- decrescere-morire. Ma il rimedio per perpetuare la vita non è generare figli (nella discendenza potrebbe esserci degli infelici…); è lasciare una traccia di Bene.
 
b) Gli impiccati
 
 
È questa una macchina mostruosa che schiaccia e livella secondo una certa serie. Quando vedo agire e sento parlare uomini che sono da 5, 8, 10 anni in carcere, e osservo le deformazioni psichiche che essi hanno subito, davvero rabbrividisco, e sono dubbioso nella previsione di me stesso. Penso che anche gli altri hanno pensato (non tutti ma almeno qualcuno) di non lasciarsi soverchiare e invece, senza accorgersene neppure, tanto il processo è lento e molecolare, si trovano oggi cambiati e non lo sanno, non possono giudicarlo, perché essi sono completamente cambiati”.  (Antonio Gramsci, Lettera a Giulia,  19 novembre 1928).
A volte penso che molti detenuti che in carcere si tolgono la vita forse scelgono di morire perché si sentono ancora vivi. E  forse, invece, alcuni rimangono vivi perché si sentono già morti o hanno già smesso di vivere. Credo anche che molti detenuti si tolgano la vita perché l’Assassino dei Sogni (il carcere come  lo chiamo io) non risponde mai ai loro appelli disperati. Altri invece lo fanno per ritornare a essere uomini liberi. E molti si tolgono la vita perché non hanno altri modi per dimostrare la loro umanità.
Oggi nella rassegna stampa ho letto la notizia di un altro suicidio, poche parole, pochi dati:
Si chiamava Osas Ake. Si è impiccato nel carcere di Piacenza. Era in cella di isolamento perché "molto agitato". Aveva 20 anni, era nigeriano
.
Ed ho pensato a quella volta che ero entrato in una cella dove s’era impiccato un detenuto: Piano terra, cella 17. La chiave non girava. La mandata non scattava. Il blindato non si apriva.
Mi stanco di aspettare con il sacco nero della spazzatura con dentro la mia roba personale sulle spalle. La poso in terra e chiedo alla guardia: Ma da quando è che non aprite questa porta? La guardia prima di rispondermi mi guarda con sufficienza, dall’alto al basso e poi ringhia: Da alcuni mesi, c’erano i sigilli giudiziari, c’è stata un’inchiesta, quello che c’era prima si è impiccato tra le sbarre. Puzzava di galera. Aveva una faccia da beccamorto. Una faccia di vampiro sfortunato che non riceveva da tempo una sufficiente razione di sangue. Gli dico: Mettetemi in un’altra cella.
La faccia da beccamorto mi risponde: Non sei in albergo, qui sei a Nuoro e poi celle libere non ce ne sono. E poi urla alla guardia del piano di sopra: Collega, manda quelli della manutenzione: la porta non si apre. Io intanto aspetto. Dopo dieci minuti arriva una guardia con due lavoranti e un cannello con la fiamma ossidrica. Tagliano la serratura e ne saldano una nuova. Entro, mi chiudono il cancello e mi lasciano il blindato aperto. Mi guardo intorno, non mi muovo, rimango fermo e  vedo escrementi di topo dappertutto, ragnatele al soffitto, macchie di umidità alle pareti. Ero arrivato all’inferno di Badu e Carros. E pensai per un attimo di impiccarmi anch’io alle sbarre della finestra. Solo i coraggiosi però hanno il coraggio di evadere dal carcere, i vigliacchi come me  rimangono. Ed io sono rimasto in quella cella per cinque lunghi anni. Poi ho saputo che il compagno che s’era tolto la vita in quella cella era un ergastolano ostativo. E sono diventato amico del suo fantasma che mi ha tenuto compagnia per tanti anni.
Carmelo Musumeci  - Febbraio 2015
 
Due miei punti di vista:

1) Gli impiccati sono dei di-sperati che cercano l’unica via di uscita che ritengono di poter utilizzare; e non sono solo i condannati in prigione: quel che fa raccapriccio è il fallimento di uno stato che vendica la colpa e non offre la via della redenzione.

2) Opto per la felicità feconda (come suggerisce l’etimologia del termine): l’esistenza terrena è ben triste se serve soltanto per nascere-crescere- decrescere-morire. Ma il rimedio per perpetuare la vita non è generare figli (nella discendenza potrebbe esserci degli infelici…); è lasciare una traccia di Bene.
 
 
 
 

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